Grantham, piccola cittadina dello
stato della Virginia. Sul luogo di un duplice omicidio, la polizia rinviene anche
un cadavere di una ragazza. Non sapendo il nome della donna, la polizia la
chiama Jane Doe (John Doe è, per il mondo anglosassone, ciò che Mario Rossi è
per noi italiani). Il suo corpo giunge all’obitorio, dove Tommy Tilden (Brian
Cox) e suo figlio Austin (Emile Hirsch) vengono incaricati di eseguire l’autopsia
per stabilire le cause della morte.
Il cadavere della ragazza
presenta polsi e caviglie fratturati, occhi grigi e lingua recisa, ma nessun
segno evidente di violenza e ecchimosi. E allora chi o che cosa l’ha uccisa?
Autopsy,
primo lungometraggio in lingua inglese del norvegese André Øvredal, è un horror
da camera ambientato all’interno di un obitorio, luogo perfetto per mantenere
costantemente elevata la tensione. Brian Cox e Emile Hirsch sono i soli
protagonisti del film, capaci di caricarsi il peso della pellicola sulle
spalle, riuscendo, grazie anche a dinamiche famigliari previste da una
sceneggiatura intelligente e compatta, a palesare la paranoia e la psicosi che
permettono l’immedesimazione del pubblico.
Il paranoid horror del regista norvegese, inoltre, ha il merito di
esplorare la carne umana del corpo di Jane Doe (l’inerte Olwen Catherine Kelly)
con un’attitudine inquieta e inquietante, cercando con ostinazione la
mostruosità nelle viscere umane. In Autopsy esplode quella pulsione a vedere
l’impossibile in primissimo piano, senza tagli o mezze misure, in cui il corpo
umano si fa magnete che inesorabilmente calamita l’attenzione dello spettatore.
La genialità di Øvredal sta però nel
prendere le distanze da quel torture porn
molto in voga dieci anni fa, e soprattutto, contenendo le sfumature splatter, nell’allontanarsi
anche da una matrice d’exploitation
molto in voga, anche in Italia, tra gli anni Settanta e Ottanta. Autopsy riesce a mischiare il thriller, l’horror
paranoico, il sangue (limitato, ma comunque presente) e il soprannaturale, in
un ambiente chiuso e piccolo, un obitorio che si trasforma in una casa degli
orrori dal sapore gotico.
Autopsy
è un riuscitissimo pastiche, un’operazione
che dimostra che il genere horror è vivo e funziona, nonostante la sua natura borderline che lo pone ai margini dell’industria
cinematografica americana e mondiale, e che al tempo stesso lascia estrema
libertà agli addetti ai lavori.
Nessun commento:
Posta un commento