Il giovane Lockhart (Dan DeHaan)
viene spedito da Wall Street in Svizzera, nel tentativo di riportare in America
l’amministratore delegato dell’azienda per cui lavora. Questi però si trova in
un centro benessere immerso nelle Alpi, e non ha nessuna intenzione di fare
ritorno a casa. Durante la sua visita alla clinica Lockhart ha un incidente che
lo costringe a prolungare il suo soggiorno. Durante la sua permanenza all’interno
del centro gestito dall’ambiguo dottor Volmer (Jason Isaacs), Lockhart si
accorge che le cure somministrate ai pazienti peggiorano le loro condizioni. Si
metterà così a indagare e scoprirà a sue spese che uscire vivi dalla clinica
non sarà una cosa semplice.
Succede di rado, ma
fortunatamente qualche volta succede: un regista di spicco, un nome altisonante
della Hollywood che conta decide di dedicarsi alla realizzazione di un film che
in qualche modo cerca di abbracciare l’orrorifico in almeno una delle sue
centinaia di ramificazioni. Era successo l’anno scorso per Nicholas Windig Refn
che aveva realizzato The Neon Demon,
e ne era uscito un semi capolavoro; è accaduto quest’anno con Gore Verbinski e
il suo La cura dal Benessere.
Intendiamoci, non stiamo parlando di un’opera da urlo, un instant cult destinato a rimanere nella memoria collettiva. La cura dal benessere è sicuramente un
ottimo film e comunque una ventata di aria fresca in un ambiente troppo frenato
da un timore produttivo che mina in principio quella libertà creativa che l’horror
necessita.
Gore Verbinski, probabilmente
volenteroso di rifarsi dopo il disastro di Lone
Ranger, si concede totale libertà per realizzare un thriller orrorifico in
cui prevale soprattutto la paranoia. La
cura dal benessere è di certo un film ambizioso. Ambizioso per la sua
durata di 145 minuti, ambizioso per la costruzione degli ambienti (una clinica
più simile all’ospedale psichiatrico di Shutter
Island, che ai centri benessere di 8
e ½ e Youth – La giovinezza) e
dei costumi, curatissimi, cadaverici e spettrali. Nel suo danzare con la
macchina da presa al ritmo di una costante nenia argentiana, sembra proprio che
Verbinski si diverta a richiamare quei mostri sacri che hanno contribuito a
rendere l’orrore un genere riconosciuto. C’è la paranoia di Polanski, c’è molto
dello Scorsese di Shutter Island, e
soprattutto c’è tutta l’iconografia del gotico tout court, da i super classici della Universal e della Columbia,
fino al gotico made in Italy di Bava
e Freda. Esplode, insomma, quella libertà a cui molto spesso i registi aspirano;
una libertà che però non si traduce in un’iperbolica follia produttiva. C’è un
rispetto della storia, degli stilemi e delle regole del genere, assolutamente
onorato da Verbinski.
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