domenica 5 febbraio 2017

Film - Draft Day (2014) di Ivan Reitman



Per ogni tifoso o appassionato di sport americano (sia questo il basket, il baseball, il football o l’hockey) che si rispetti, c’è una data particolare da evidenziare sul calendario, un giorno di vitale importanza per le sorti della propria squadra del cuore. È il giorno del draft.
Il draft è il sistema adottato dalle leghe per la selezione dei giocatori senza contratto. È il sistema con cui le varie franchigie si danno battaglia per accaparrarsi i più promettenti talenti provenienti dal mondo del college che sbarcano nel professionismo ed è basato su una sorta di sorteggio che stabilisce l’ordine di scelta.
Draft Day, pellicola del 2014 diretta da Ivan Reitman, ricostruisce questa fatidica giornata attraverso gli occhi e le gesta di Sonny Weaver Jr. (Kevin Costner), direttore generale della squadra di football dei Cleveland Browns, intento a risolvere i problemi della suo team cercando di selezionare i giocatori migliori.
Anche se in Draft Day l’azione sportiva e il campo da gioco rimangono sullo sfondo, il film si inserisce pienamente il quella selva di pellicole ambientate nel mondo dello sport in generale. E, come la gran parte dei suoi fratelli, Draft Day ha la qualità di non annoiare mai lo spettatore e di procedere con ritmo incalzante fino ad approdare al finale trionfante e scontato che lo spettatore aspettava.
Draft Day è la classica favola americana in cui lo spettatore si immedesima nel personaggio interpretato da Kevin Costner, uomo comune chiamato a superare ostacoli e difficoltà per raggiungere la gloria e il riscatto personale. È un film di puro intrattenimento, scevro da qualsiasi intenzione di critica al mondo del football o dello sport in generale, universi in costante sviluppo in cui gli obiettivi dei tifosi collimano sempre meno con quello dei dirigenti, attenti perlopiù a far quadrare i bilanci.
Draft Day è Un film che scivola via, da guardare in vestaglia al caldo, quando è domenica e fuori piove.

sabato 4 febbraio 2017

Film - Barry (2016) di Vikram Gandhi



Più delle tv e delle majors hollywoodiane, ad intercettare il vento che soffia  e che muove l’attualità americana e non, e a battere il ferro caldo è Netflix, piattaforma che continua a dimostrarsi fucina di esperimenti e creazioni dagli standard sempre più alti.
Barry, distribuito worldwide il 16 dicembre, avrebbe potuto e voluto essere un fulgido esempio della politica produttiva del colosso di Los Gatos.
Barry sembrerebbe essere il saluto d’addio all’ormai ex Presidente Obama; una forma di biopic ibrido che riprende una frazione minuscola della vita dell’uomo.
Siamo a New York. È il 1981, l’anno più violento nella storia della Grande Mela, quello ricostruito da J.C. Chandor nel 2014 in 1981: Indagine a New York. In una fumosa città che trasuda odio e violenza, razzismo e povertà, si muove il ventenne Barry- Barack (Devon Terrell), studente iscritto alla Columbia University. È in questo ambiente che il ragazzo si scontrerà con temi d’importanza sociale, si misurerà con l’amore e affronterà un complicato  rapporto con i genitori.
Vikram Gandhi e Adam Mansbach, rispettivamente regista e sceneggiatore del film, riducono la vita di un uomo che sarà Presidente degli Stati Uniti d’America a un’accozzaglia  di scenette completamente slegate fra loro cercando di trasformare in film di formazione la vita del giovane Barry.
L’intento che il film si pone è quello di cercare nel passato di Obama una spiegazione alle politiche adottate poi nei suoi otto anni di Presidenza. Ma è un intento che non viene assolutamente rispettato, schiacciato dal personaggio di Barry stesso, completamente sfasato rispetto al tempo, al luogo e alle persone in cui è inserito. Il giovane Obama sembra l’unico idealista del suo tempo. L’unico incline al ragionamento filosofico e sensibile alle tematiche sociali che il film cerca di proporre: razzismo, povertà, uguaglianza vengono propinati allo spettatore in maniera talmente stereotipata da risultare invisibili e impalpabili.
Poteva essere uno dei primi casi in assoluto in cui il cinema americano congedasse degnamente e pressoché live un suo Presidente e invece Barry finisce per assomigliare a uno di quegli instant books che si trovano in edicola, da comprare insieme a qualche rivista dalla tiratura in calo. Peccato.

venerdì 3 febbraio 2017

Libro - Il Paese che amo di Simone Sarasso



Con Il Paese che amo, edito dai tipi della Marsilio, Simone Sarasso conclude il racconto del lato oscuro del lungo dopoguerra italiano con il capitolo finale della trilogia iniziata con Confine di Stato e proseguita con Settanta.
In Il Paese che amo ritroviamo i personaggi già conosciuti nelle precedenti parti della trilogia a cui si aggiungono characters nuovi, alter ego di personalità che hanno caratterizzato e condizionato la storia del nostro Paese dagli anni Ottanta a oggi.
C’è proprio tutto. C’è la mafia e la stagione delle bombe, c’è Bettino Craxi e il suo Partito Socialista. Ci sono le tv private, la Milano da bere e la Uno Bianca. C’è Tangentopoli e la figura di Domenico Incatenato che ricorda molto quella di Antonio di Pietro. Sarasso, come nei precedenti due romanzi, è abilissimo nel rievocare e legare fra loro  fatti e avvenimenti del tempo utilizzando un linguaggio visivo in linea con il mezzo cinematografico; un linguaggio dalle venature pulp, graffiante e tagliente come il suo grande modello, quel James Ellroy che, prima di Sarasso, aveva ricostruito la storia del suo Paese, gli Stati Uniti, da Kennedy al Watergate.
Ma con Il Paese che amo il giovane scrittore italiano si allontana in parte dal lavoro di Ellroy. In questo ultimo romanzo che chiude degnamente la trilogia, Sarasso sacrifica la correttezza storica per concedersi licenze dettate dalla voglia di lasciar primeggiare la fiction, nel suo stile fumettistico e personale, sull’aderenza ai fatti.
È una scelta che si rivela più che azzeccata, perché il periodo storico trattato, al contrario delle prime due parti della trilogia, non permette di arrivare a conclusioni di alcun tipo: oggi, nel 2017, la strategia della tensione e gli anni di piombo si possono definire periodi bui conclusi, mentre il lerciume portato nella nostra società e nel nostro costume da anni di pratiche clientelari e  loschi personaggi da tv private ancora, ahinoi, non è misurabile.

giovedì 2 febbraio 2017

Film - La battaglia di Hacksaw Ridge (2016) di Mel Gibson



Desmond Doss (Andrew Garfield), cristiano avventista, si arruola volontariamente nel esercito americano durante la seconda guerra mondiale. Sarà il primo obiettore di coscienza per essersi opposto all’uso di qualsiasi arma e verrà impiegato come medico nella battaglia di Okinawa in Giappone salvando la vita a 75 soldati, diventando il primo obiettore di coscienza a ricevere la medaglia d’onore.
La battaglia di Hacksaw Ridge è un film sulla non-violenza; una non-violenza che esplode nel contrasto con la brutalità e con la follia sanguigna che il conflitto bellico mette in evidenza. Nella seconda parte del film vi è una vera esplosione di questa contraddizione visiva che fuoriesce dal campo cinematografico. È Impossibile non pensare che il suo regista, Mel Gibson, persona macchiatasi di episodi di violenza e di discutibile moralità in passato, abbia scelto di portare la vera storia di Desmond Ross sul grande schermo nella ricerca di una sorta di espiazione per le sue cattive condotte passate.
Desmond Doss è una persona religiosissima, un cristiano avventista, anch’egli macchiatosi di un episodio di violenza nei confronti del fratello minore in gioventù, che ha promesso a Dio di non uccidere, di rifiutare la violenza anche durante la guerra.
Questa religiosità di Desmond, mai eccessiva o bigotta si trasforma in necessità di fare del bene, di contrastare quella violenza che solo la guerra sa portare e che Mel Gibson non esita a riproporre in maniera più che esplicita ma non gratuita. È qui che si legge la critica di Gibson ai cinecomics, colpevoli a detta sua di svuotare la violenza di quella coscienza che permetterebbe di evitarla.
È una crociata quella intrapresa dal regista. Un percorso di redenzione segnato dalla fede, da Braveheart, fino ad Apocalypto, concetto questo che ri-disegna la figura dell’eroe cinematografico americano e segna il ritorno di uno dei pochi registi a mettere sullo schermo i propri travagli interiori.

Film - Hell or High Water (2016) di David Mackenzie



Hell or High Water è stato distribuito nelle sale americane il 12 agosto 2016. In Italia non ha trovato distribuzione nei cinema, ma è stato reso disponibile da Netflix dal 18 novembre. Il film ha poi ottenuto 4 nominations agli Oscar, tra cui quella per il miglior film e quella per la sceneggiatura originale, dimostrando di come ormai una pellicola non abbia necessariamente bisogno del passaggio in sala per colpire positivamente critica e pubblico.
Siamo in Texas. L’ex detenuto Tanner (Ben Foster) e suo fratello Toby (Chris Pine) studiano e mettono in pratica una serie di rapine a piccole banche con lo scopo di salvare il ranch di famiglia, costruito proprio su un grande giacimento di petrolio, ma pignorato dalle banche. Un ranger tutto d’un pezzo (Jeff Bridges) si mette sulle loro tracce come ultimo caso prima del pensionamento.
Accolto positivamente dal pubblico del Festival di Cannes, Hell or High Water è stato definito da più parti come un western moderno. A ben vedere però, il film di David Mackenzie non presenta le caratteristiche che contraddistinguono il cinema western. Hell or High Water è ambientato nella provincia texana, lontana dalle grandi città, ma distante (anche temporalmente) dall’incontaminato West a cui questo genere solitamente si aggrappa. In Hell or High Water non c’è il mito della Frontiera, non ci sono cavalcate selvagge verso il tramonto, saloon e fuorilegge. È semplicemente uno scontro tra buoni e cattivi con Jeff Bridges che interpreta alla perfezione l’uomo d’ordine che funge da normalizzatore libidinale nei confronti delle istanze pulsionali rappresentate dai criminali Tanner e Toby. Al di là della ricerca di una categoria-genere in cui poter inserire Hell or High Water, il film può essere visto come la cruda messa in scena del Texanism, la filosofia di vita di gente rimasta inalterata nel tempo e avvinghiata a semplici valori come la famiglia, la difesa della proprietà privata, la routine quotidiana. Valori puri che i personaggi rappresentati da Mackenzie non esitano a difendere con un uso scriteriato di armi e violenza, con un forte razzismo e estremismo religioso.
Ecco allora che Hell or High Water si impregna di quella critica sociale perfettamente in linea con il delicato momento che gli Stati Uniti stanno vivendo ora con il cambio presidenziale rendendo di fatto vana una forzata ricerca tra i generi.