sabato 24 giugno 2017

Libro - Il passato davanti a noi di Bruno Arpaia



L’11 settembre del 1973, il telegiornale Rai trasmette le immagini in bianco e nero del golpe cileno. Per un gruppo di ragazzi che vive in un paese alla periferia di Napoli, è un fulmine a ciel sereno. Come si fa a restare impassibili di fronte a quelle immagini? In quella stagione caldissima, fatta di bombe nelle piazze, di scioperi e lotte sindacali, Alberto Malinconico, Angelo Malecore e i loro amici sviluppano una coscienza politica e una forte voglia di rivoluzione. È però un fuoco che si spegne presto, che si scontra con una realtà difficile, minacciata dalla criminalità organizzata, ma anche dai primi amori, dalle tensioni familiari, dalle vacanze vissute all'avventura e termina con il fallimento degli stessi ideali da cui aveva preso le mosse. E se qualcuno è riuscito a tagliare i ponti con il passato, costruendosi una vita normale fatta di lavoro e famiglia, altri invece pur vent’anni dopo devono ancora fare i conti con il passato di militanza politica.
Il passato davanti a noi di Bruno Arpaia è un libro grandioso. Grandioso per le dimensioni, e per i contenuti. Lo scrittore di Ottaviano costruisce un romanzo di formazione intrecciando l’esistenza di alcuni ragazzi con la cronaca italiana degli anni Settanta. Non manca nulla: le stragi, l’assassinio di Aldo Moro, i morti nelle piazze, i movimenti operai, il femminismo, ma anche il cinema e la musica. Arpaia racconta con precisione clinica una intera generazione costruita attorno a solidi e limpidi ideali e fortemente basata su una collettività oggi sconosciuta. La voglia di rivoluzione di un gruppo di giovani napoletani alle prese con il sottosviluppo del meridione si trasforma presto in coinvolgimento, in militanza, e per alcuni in lotta armata. E quella purezza di ideali si contamina presto con il sangue, con gli scontri in piazza, con le rapine e con la clandestinità.  È in questo passaggio che molti si sono perduti: l’idealismo di quel tempo barbaramente sostituito dal sangue sulle strade, dalle bombe di Stato, dai morti nelle piazze. Arpaia racconta la nascita, lo sviluppo e il fallimento del “movimento”,  sparito, sconfitto da un ripiegamento nella vita privata, un disinteresse per la comunità e che lasciato nella memoria delle persone solo i nomi dei morti e il sangue di piazza Fontana, di piazza della Loggia, dell’Italicus, della Stazione di Bologna.
Ma tutto questo perché?   

venerdì 16 giugno 2017

Film - Nerve (2016) di Henry Joost e Ariel Shulman



Vee (Emma Roberts) è una timida liceale, amica della regina della scuola Sydney (Emily Meade) che, considerandola repressa, la spinge a partecipare a Nerve, un gioco online che pone il giocatore a reali sfide sempre più ardue in cambio di premi in denaro. Vee accetta e, nella prima di queste prove, conosce Ian (Dave Franco), che da quel momento diventa il suo partner nel gioco. Nerve porrà la coppia di fronte a sfide sempre più estreme, a tal punto da mettere in pericolo la loro vita e quella dei loro cari.
Nerve, diretto dalla coppia formata da Henry Joost e Ariel Shulman, vorrebbe essere un film che indaga e scava a fondo nei meandri meno noti e più oscuri di internet, sviscerandone la pericolosità e portandola a conoscenza del pubblico. Il gioco online Nerve, che divide gli iscritti in giocatori e spettatori è l’esaltazione del voyeurismo e dell’esibizionismo che l’avvento di internet, dei social network e degli smartphone (e della connettività in generale) ha creato. Il warholiano “quarto d’ora di celebrità” che Twitter e Instagram hanno trasformato in una vera e propria febbre da followers è il motore anche del gioco Nerve, basato proprio sul numero di spettatori. È una tematica interessante quella del film, costruita però con enorme confusione: la pellicola non spiega  le dinamiche che stanno dietro il gioco. Lo spettatore rimane in balia di un gruppo di liceali molto più simili a trentenni alle prese con i tipici drammi adolescenziali. Nerve, più che un film realizzato per evidenziare i pericoli di una parte del web, si rivela essere un teen movie in piena regola che si sofferma su un sentimentalismo trito e ritrito sabotando sul nascere quanto di nuovo il film poteva offrire.
In una società sempre più persa in un mondo virtuale e alle prese con nuovi fenomeni preoccupanti come il recentissimo Blue Whale, Nerve non analizza quel cinismo proprio tipico spettatore del web, proprietario di un’insensibilità che trasforma le persone in oggetti senza valore, bestie osservate e monitorate in attesa di una tanto attesa morte.

giovedì 15 giugno 2017

Film - T2 Trainspotting (2017) di Danny Boyle



A vent’anni dalla fuga, Mark Renton (Ewan McGregor) torna a Leith, quartieraccio di Edimburgo per ritrovare i vecchi amici a cui aveva sottratto 16.000 sterline: Begbie (Robert Carlyle) è in carcere e medita l’evasione, Spud (Ewen Bremner) è ancora in preda a una feroce tossicodipendenza e pensa al suicidio,  Sick Boy (Jonny Lee Miller) gestisce un pub, coltiva marijuana e estorce denaro alle persone insieme a Veronika (Anjela Nedjalkova), sua compagna. E mentre Begbie vorrebbe uccidere Renton, Sick Boy propone all’amico che 20 anni prima li aveva traditi, di mettere in piedi un bordello di lusso.
T2 Trainspotting è il sequel del cult del 1996 di Danny Boyle. L’universo in cui si muovono Renton, Sick Boy e tutti gli altri è stato creato dallo scrittore Irvine Welsh, che oltre a Trainspotting (1993) ha scritto il prequel Skagboys (2012), il sequel Porno (2002) e una sorta di spin-off dedicato a Begbie intitolato L’artista del coltello (2016).
È bene fare questa precisazione perché T2 non è la riproposizione cinematografica di Porno,  ma è un film che prende altre strade slegandosi dall’universo letterario di Welsh, comunque presente in T2 nel parte del criminale Mikey Forrester (ruolo già suo nel film del 1996).
T2 è un film che riparte da 20 anni fa. È una pellicola ampiamente intrisa di nostalgia; una nostalgia semplice, rimpianto malinconico di quanto è trascorso. Boyle accenna appena un richiamo al passato come strumento di riflessione sulla condizione presente. Il regista preferisce giocare sulle sequenze più celebri del film del 1996, dare importanza alla colonna sonora (la lisergica Born Slippy degli Underworld è distorta in remix e utilizzata come vero e proprio leit motiv) e sfidare lo spettatore con un gioco di citazioni e rimandi. C’è molta coerenza con il primo film, una coerenza però solamente formale. Renton, Begbie, Spud e Sick Boy hanno vent’anni in più, ma questo non si nota: il collegamento fra i due film, a livello contenutistico, è inesistente. C’è troppa distanza, uno spazio reso incolmabile dalla debolezza di T2. Se Trainspotting prendeva a cannonate la società britannica degli anni Novanta rivoluzionando il modo di fare un certo cinema di denuncia tipicamente inglese, il sequel risulta piuttosto debole, scarico: siamo in presenza di una, comunque ottima e godibile, commedia a tinte pulp, un film di puro intrattenimento in cui l’odio, il lercio e la putrefazione del primo film sono sostituiti da colori brillanti, parchi giochi dall’erba curatissima e da negozi dalle insegne sfavillanti, simbolo di un consumismo che il primo film aveva fatto a pezzi.

domenica 11 giugno 2017

Film - 47 metri (2017) di Johannes Roberts



Le sorelle Kate e Lisa sono in vacanza in Messico. Ma mentre Kate cerca di divertirsi e rilassarsi, Lisa è turbata dalla separazione col fidanzato. Nel tentativo di distrarla, Kate la porta dunque in un locale dove fanno la conoscenza di due ragazzi messicani che propongono loro un’immersione in mare all’interno di una gabbia metallica per osservare da vicino gli squali. Le ragazze accettano, ma quello che doveva essere un pomeriggio di divertimento e adrenalina si trasformerà in vero incubo quando la gabbia precipiterà sul fondo del mare a 47 metri di profondità.
Dopo aver visto squali assassini, squali geneticamente modificati, squali d’acciaio, squali robot, squali esorcisti e tornadi di squali, risulta francamente complicato trovare una giusta collocazione per questo 47 metri, diretto e co-scritto dal Johannes Roberts. Siamo nel vasto territorio del b-movie, in cui non ha senso scomodare Spielberg e Joe Dante per avventati giudizi critici. L’unico carattere di originalità di 47 metri sta nell’essere ambientato per la quasi intera durata sott’acqua. Le fluide riprese seguono lo strisciare dei mostri marini e il nuotare delle impaurite protagoniste. È un’ambientazione che però stufa presto e che non riesce a catturare come quei film alla Buried – sepolto (di cui fanno parte, tra gli altri, Mine, Open Water e il recente shark movie con Blake Lively, Paradise Beach), in cui i personaggi rimanevano imprigionati in un ambiente ristretto in una situazione di elevato pericolo.
47 metri manca di vero e proprio pathos, rimanendo scontato dall’inizio alla fine, rinunciando a una reale costruzione psicologica dei personaggi (il rapporto fra le sorelle, ad esempio, non è per nulla sviluppato) e sfrutta alcuni escamotage e twist narrativi che sfiorano il ridicolo.
Il film non raggiunge l’obiettivo a cui dovrebbe mirare: portare lo spettatore a staccare la spina per l’ora e mezza di durata. Non esiste suspense, non c’è quell’ironia che rende godibile un film di categoria inferiore. C’è solo una dose massiccia di serietà; un volere dimostrare a tutti i costi di essere un prodotto di qualità, o almeno un concorrente di un qualsiasi blockbuster. Ovviamente è una sfida persa in partenza e alla fine l’unica spina che lo spettatore staccherà sarà quella della tv o del lettore blu-ray.

martedì 6 giugno 2017

Film - Raw (2016) di Julie Ducournau



La sedicenne vegetariana Justine arriva al college per diventare veterinaria. La ragazza, molto timida, è vittima di una serie di episodi di nonnismo, tipici per gli studenti del primo anno. In questo vero e proprio rito di iniziazione, però, è compreso l’assaggio di un rene crudo di coniglio. La scoperta della carne per Justine è sconvolgente. L’iniziale semplice curiosità si sviluppa in vero e proprio desiderio; un’incontrollabile voglia che sfocerà in un brutale cannibalismo.
Pur collocandosi nelle zone più estreme dei giudizi critici ortodossi, il genere orrorifico mantiene da sempre intatta quella caratteristica di saper fotografare la società e di saper iperbolizzarne i difetti, le sfumature. Ecco, Raw di Julie Ducournau, presentato al Festival di Cannes del 2016, chiama in causa quel fanatismo proprio del recente movimento vegano (e animalista) che sta raccogliendo sempre più consensi.
Raw parte da questa realtà ma non si limita a questo: nell’esistenza di Justine e dei suoi coetanei è evidente la mancanza di un’autorità, di un modello di riferimento. Non ci sono insegnanti, non c’è polizia, i genitori sono lontani persi nei propri lavori. Il vuoto di questi ragazzi è colmato solo da pulsioni sessuali, da attrazione per i corpi, per la carne. Justine è la dimostrazione di come un essere vivente vuoto, può mostrarsi solo per ciò che è: una persona in preda agli istinti più animali. Il cannibalismo di Justine, la sua pulsione per la carne è il simbolo di una gioventù piatta, incapace di scuotersi, adagiata in un mondo in cui il tempo non scorre mai.
Raw è un film horror per il disgusto che mette in scena, per il suo essere disturbante in alcune sequenze. Centro dell’orrore, in linea con i dettami del genere, è il corpo umano, sfigurato, sventrato, fatto a brandelli. Un body horror, dunque, che mischia in un pastiche postmoderno elementi di Pasolini, del cannibal movie e della Chemical generation. Un horror che  però non cerca di ottenere effetti gore  per sconvolgere lo spettatore, ma piuttosto vuole sviscerare la condizione di un’intera generazione. Nella sua correttezza formale (e nella genialità di alcune sequenze simboliche) la regista realizza un film da circuito arthouse, una gemma destinata a brillare a lungo.