mercoledì 1 febbraio 2017

Film - Arrival (2016) di Denis Villeneuve



È il 2016 e sulla Terra sono arrivati gli extraterrestri: dodici navicelle aliene sparse per il globo galleggiano in cielo in attesa di contatto con il popolo terrestre. La linguista Louise Banks (Amy Adams) e il fisico Ian Donnelly (Jeremy Renner) sono reclutati dal colonnello Weber (Forest Whitaker) per cercare di trovare un linguaggio comune con la nuova forma di vita, mentre nel mondo si dibatte sulle reali intenzioni dei misteriosi invasori.
Con Arrival Denis Villeneuve, canadese adottato ormai da un lustro dal cinema hollywoodiano, riesce a proseguire quel piccolo filone di fantascienza adulta dagli intenti filosofici a cui appartengono Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) e il più recente Interstellar (2014) di Nolan.
La forza e il peso di Arrival sta tutto sulle spalle di Amy Adams, attrice formidabile, linguista di successo dal passato scosso per la scomparsa della figlia, incaricata dal governo americano di stabilire un contatto linguistico con gli alieni. L’idea geniale del film è proprio qui: Independence Day  (1996) e La guerra dei mondi (2005) sottointendevano un popolo extraterrestre violento e conquistatore per dare spazio all’action e agli effetti speciali. Arrival no: tema centrale del film è la comunicazione: un dialogo pacifico fra civiltà e identità sconosciute. Un tema banalissimo, solitamente trascurato, ma di spaventosa attualità.
Il film di Villeneuve ha il pregio di esprimere nitidamente un timore per lo straniero, portando nella fantascienza quella xenofobia latente che dilaga in tutto il mondo occidentale nei nostri giorni. Arrival è un concentrato di tematiche comuni e scottanti coniugate a un perfezionismo tecnico che nasconde quei piccoli passaggi a vuoto e quei difetti dovuti al coraggio e alla sperimentazione che un genere come la fantascienza pretende.

Film - La La Land (2016) di Damien Chazelle



Los Angeles. Mia (Emma Stone) è un’aspirante attrice che lavora come cameriera in un caffè. Sebastian (Ryan Gosling) è un pianista jazz che si mantiene suonando nelle cover band e nei piano bar costretto a svendersi suonando jingle natalizi.
L’inevitabile incontro tra i due porterà l’amore, ma l’ostinazione nel cercare di realizzare i propri sogni metterà in bilico la loro relazione.
Damien Chazelle, regista di questo La La Land, è uno dei nomi di punta della Hollywood degli anni Dieci di questo secolo. Trentaduenne, al terzo lungometraggio, Chazelle torna dopo Whiplash del 2014, a dichiarare tutto il suo amore nei confronti del jazz. La La Land è un musical hollywoodiano classico, in cui musica e danza sono i mezzi che permettono a Chazelle di sviscerare tutto il suo virtuosismo e il suo eclettismo con la macchina da presa. E il musical, ancora una volta, si dimostra essere il genere cinematografico che garantisce libertà e inventiva pressoché assoluta al suo regista. La La Land è un film impeccabile da un punto di vista tecnico; ha fatto e farà scorpacciata di premi.
Chazelle, oltre che abile e sapiente artigiano-artista della telecamera e del montaggio, dimostra di essere anche sopraffino cinefilo, costellando la sua pellicola di evidenti richiami e citazioni: c’è 8 ½ di Fellini, c’è Gioventù bruciata, ci sono Casablanca e Ingrid Bergman, c’è Cantando sotto la pioggia. Insomma, si strizza l’occhio a quella Hollywood che l’odierna Los Angeles pulita e colorata ripresa da Chazelle vorrebbe richiamare; un’epoca cinematografica classica, basata su una solida industria e su un forte star system.
Questo eccesso di nostalgia, però, finisce con ridurre la sceneggiatura a una semplice struttura boy meets girl, struttura che nel 2017 risulta stereotipata, ovviamente già vista e persino noiosa. Se La La Land vuole gridare al pubblico americano e mondiale che il musical è ancora vivo e lotta insieme a noi, dall’altro lato non riesce a sviluppare o a trovare altre vie a forme narrative già esistenti quasi 90 anni fa.
Il dominio alla cerimonia dei Golden Globes e il probabile bis agli Oscar, pongono dei dubbi sui metodi utilizzati per giudicare la stagione cinematografica americana (per non dire mondiale): è possibile che in questi 12 mesi non sia stato realizzato nessun film capace di strappare a La La Land almeno un premio?

lunedì 30 gennaio 2017

Libro - La memoria di Old Jack di Wendell Berry



Wendell Berry è nato nella contea di Henry, Kentucky nel 1934. Dopo alcuni anni passati a insegnare presso le università di New York e della California, nel 1965 si ristabilisce nel Kentucky dove tutt’ora vive con la famiglia in una fattoria. Prima di essere uno scrittore Berry è, come suo padre e come tutta la sua famiglia dal 1800, un  agricoltore e un forte ambientalista.
Gli scritti di Wendell Berry, narrativa e saggistica, portati in Italia dalle edizioni Lindau e dalle traduzioni di Vincenzo Perna risentono in maniera spontanea e naturale di questo tipo di background.
La memoria di Old Jack, quarto romanzo tradotto in italiano, ma terzo lavoro dello scrittore datato 1974 racconta l’esistenza di Jack Beechum, uomo novantaduenne, un tempo agricoltore e persona tutta d’un pezzo e ora confinato all’hotel del paese sempre più prossimo alla morte. Il vecchio Jack, sentendosi vicino alla fine, lascia riaffiorare i ricordi, un flusso continuo che ripercorre le tappe più significative della sua esistenza e dell’esistenza di tutta la comunità di Port William, villaggio rurale, vero protagonista di tutti i romanzi e di tutti i racconti di Wendell Berry.
Lo scrittore, allo stesso modo di Steinbeck e del John Williams di Stoner riesce a raccontare un’America lontana dalle metropoli frenetiche, tratteggiando personaggi di nitidissima umanità e sincerità.
L’armonia della comunità, il rispetto dei valori tradizionali quali lavoro e famiglia, l’amore per la propria terra e le proprie origini sono tutte caratteristiche che rendono Berry il più riconoscibile scrittore rurale, ma che in La memoria di Old Jack lasciano spazio al valore della storia narrata da chi l’ha vissuta, il ricordo che diventa fonte, la memoria personale che si fa collettiva.
È quando tutte le forze stanno per abbandonare l’uomo che sulla forza (lavorativa s’intende) vi ha costruito la propria vita, che la memoria permette a Jack di mantenere intatta la propria dignità e la propria autorità costruita e cementata negli anni con il culto del lavoro, con il sudore della fronte e con un’umiltà di fondo rispettata e riconosciuta dalla comunità.

Libro - Una vita come tante di Hanya Yanagihara



A New York si intrecciano le vicende di Willem, aspirante attore, Jb che insegue il successo nel mondo dell’arte, l’architetto Malcolm e l’avvocato Jude.
È proprio quest’ultimo, Jude St. Francis il vero protagonista del racconto, magnete della vicenda e del rapporto di amicizia che tiene legati i quattro amici per gli oltre trent’anni di vicenda raccontata in questo corposo romanzo, il secondo, di Hanya Yanagihara, portato in Italia da Sellerio e tradotto magnificamente da Luca Briasco.
Jude St. Francis è una persona brillante, caparbia e capace sul lavoro; enigmatica, riservata, impacciata e timida nella vita privata. Il personaggio di Jude è l’estrinsecazione di come il passato di una persona ritorna sempre a galla, di come certe ferite non cicatrizzano mai abbastanza e di come il passato di una persona possa diventare uno studio sulla condizione umana tout court.
I temi, fortissimi, sono quelli dell’abuso sessuale di minori, della pedofilia, dell’autodistruzione e, in maniera più tenue, dell’omosessualità maschile. Tutte caratteristiche che compongono il passato e il presente di Jude; due piani temporali che si alternano nella narrazione fluida e magnetica. Un racconto ipnotico che cattura come una serie tv di Netflix eppure sconvolge e tocca nel profondo per la sua cattiveria perversa e per la sua crudeltà.
Ma proprio qui si smascherano i limiti del romanzo: alla fine di una lettura coinvolgente, emozionante e sicuramente drammatica, si ha come l’impressione di aver letto le miserie e le terribili vicende di una persona costruite appositamente per scandalizzare il lettore. Una vita come tante manca di una vera naturalezza, e pecca di sensazionalismo. Sembra di aver letto una episodi messi in sequela con l’intento (un intento quasi costruito a tavolino in ambiente editoriale) di suscitare emozioni forti nel lettore in maniera “fasulla”, quasi truffandolo sfruttando quei temi e quei canali di sicura presa.
La scelta (che pare non casuale) della scrittrice di escludere qualsiasi riferimento all’attualità o alla cultura pop che renderebbero la vicenda collocabile temporalmente abbinata a quella di rendere la città di New York un posto anonimo che potrebbe chiamarsi Los Angeles, Londra o Parigi, hanno l’effetto boomerang di rendere il tutto ancora più distante e inverosimile, quasi una storia di fantascientifica crudeltà a cui l’uomo può essere sensibile ma sicuramente non abituato.

giovedì 1 dicembre 2016

Film - All the Way (2016) di Jay Roach



Alla morte di John Fitzgerald Kennedy, nel 1963, Lyndon B. Johnson presta giuramento e diventa presidente degli Stati Uniti, con l’obiettivo di concludere il mandato del suo predecessore. A 11 mesi dalle elezioni Johnson si trova ad affrontare il problema dei diritti civili e l’inizio dei combattimenti in Vietnam, progettando nel frattempo di ricandidarsi alle elezioni del 1964.
A parte i costosi kolossal imburrati di virtuosistici effetti speciali, c’è un tipo di cinema sconosciuto (eccezioni a parte) all’ambiente italiano e che appartiene quasi totalmente ai canoni hollywoodiani. È il cinema politico storico e biografico, mezzo eccezionale di ricostruzione, rivisitazione e soprattutto di riflessione sul passato e, non di meno, sul presente. All the Way, film della HBO è esattamente questo e garantisce finalmente un ruolo da protagonista al presidente Lyndon B. Johnson, figura di comparsa in diversi recentissimi film come Selma – La strada per la libertà, Jackie, J. Edgar e Parkland.
Il popolo americano è probabilmente il più patriottico nel panorama occidentale, eppure il suo cinema ha la capacità di bastonare i suoi personaggi chiave sempre evidenziando i piccoli difetti e le debolezze; Oliver Stone ne sa qualcosa. Il presidente Johnson, Martin Luther King e J. Edgar Hoover sono rappresentati in tutta la loro umanità fatta di gelosie, interessi e valori, sempre determinati, questi, da una mera battaglia relazionale in cui ognuno vuole emergere e prevalere.
In All the Way, film per la tv senza alcuna pretesa artistica, oltre all’impeccabilità della ricostruzione storica, emerge proprio l’opportunismo dell’uomo, leva su cui bisognerebbe appoggiarsi per riflettere sulle condizioni del nostro vituperato presente.