Victoria (Laia Costa) è una
ragazza spagnola che vive da pochi mesi a Berlino. Alle 4 del mattino, all’uscita
di un locale viene avvicinata da Sonne (Frederick Lau) e i suoi amici che le
promettono di mostrarle il vero lato della città. Ma la loro notte votata al
divertimento si trasforma in un viaggio di sola andata per l’inferno che
culmina con una rapina in banca.
Non è tra i più originali il tema
di Victoria, film tedesco del 2015
diretto da Sebastian Schipper. E in effetti Victoria
non ambisce nemmeno a una sceneggiatura sopra le righe, indimenticabile.
Victoria, Sonne e i suoi amici sono ragazzi come tanti, che trascorrono le
proprie serate con una birra in mano, a ridere e scherzare. Nulla di
sofisticato insomma.
Quello che rende Victoria un capolavoro (ci vogliamo
sbilanciare) è che Victoria è stato realizzato come fosse un unico piano
sequenza. Ora, per i profani, il piano sequenza è semplicemente l’uso di una
sola inquadratura, talvolta molto lunga, per la rappresentazione di un segmento
narrativo. Il piano sequenza dunque è l’antitesi del montaggio che tende a
eliminare le parti superflue. Il recente Birdman
di Iñarritu e il ben più vecchio Nodo
alla gola di Hitchcock, utilizzavano dei piani sequenza in serie per dare
un’impressione di continuità. In Victoria invece non c’è nessun trucco: le
riprese sono iniziate alle 4.30 del mattino e sono terminate alle 6.54 senza
soluzione di continuità. Sono due ore e mezza in cui progressivamente si passa
da lunghe passeggiate e chiacchierate che lasciano trasparire uno spessore dei
personaggi, al crimine più bieco, a una rabbia e povertà d’animo che esplodono
nella seconda parte del film. Pur senza mai staccare il proprio sguardo dai
suoi protagonisti, sempre seguiti dall’operatore Sturla
Brandth Grøvlen, il film si trasforma passando dai dialoghi e dalle atmosfere
tanto care a Richard Linklater, ai toni crudi più in linea con il cinema
tedesco post-muro; e non è un caso se pensiamo che Schipper è stato assistente
di Tom Tykwer, regista del film-manifesto Lola
corre.
Ci voleva un film come Victoria:
un film ambizioso per lo sforzo richiesto al cast e alla troupe, ma che centra
in pieno l’obiettivo e sancisce l’esistenza di un cinema distante dall’industria
americana, ma nemmeno appartenente a un circuito arthouse borioso e pieno di sé. Un cinema attentissimo al realismo,
al narrare la vita vissuta, ma non per questo incline a scardinare inutilmente
le teorie dei generi cinematografici.