venerdì 17 febbraio 2017

Film - Il diritto di contare (2016) di Theodore Melfi



1961. Le afroamericane Katherine Johnson (Taraji P. Henson), Dorothy Vaughan (Ocatvia Spencer) e Mary Jackson (Janelle Monáe) lavorano per la NASA. Nonostante là difficoltà di lavorare in una nazione ampiamente razzista, in un ambiente prettamente maschile, i loro calcoli e la loro dedizione alla causa, porteranno l’astronauta John Glenn a risucire nell’impresa di realizzare un’intera orbita attorno alla Terra.
Le Hidden Figures del titolo originale, da noi tradotto barbaramente con Il diritto di contare, sono proprio le tre donne protagoniste della pellicola, la seconda dopo St. Vincent del 2014 per il regista Theodore Melfi. Hidden figures, figure nascoste e sconosciute lo sono state per troppo tempo all’interno della NASA che solo recentemente ha permesso all’opinione pubblica, grazie a una serie di premi, medaglie e mea culpa, un giusto riconoscimento al merito di queste tre geniali donne.
Siamo nella Virginia del 1961. Lo Stato non ha ancora abolito la segregazione razziale: neri e bianchi non possono vivere assieme; sugli autobus, nei locali pubblici, sul posto di lavoro bianchi e neri devono sempre essere separati; la NASA non fa eccezione.
In un’epoca a loro così ostile, Katherine, Dorothy e Mary hanno avuto il doppio merito di lottare e distinguersi in un luogo fortemente razzista e soprattutto in un ambiente decisamente maschile e maschilista.
Il diritto di contare è la vera storia della battaglia per i diritti civili che si coniuga a quell’emancipazione femminile voluta e ottenuta dalle tre protagoniste. Una storia talmente bella per come la realtà l’ha voluta scrivere, che il regista Melfi saggiamente ha deciso di eliminare ogni tipo di retorica o di eccesso di moralità. Melfi mostra semplicemente le difficoltà quotidiane vissute dalle donne (ma anche dagli uomini) di colore di uno stato americano dei primi anni Sessanta, lasciando al pubblico la libertà di riflessione.
Siamo davanti all’ennesima pellicola, l’ennesimo esempio di come Hollywood si diverta a prendere a schiaffi le facce più becere della storia contemporanea americana, cercando di creare una connessione temporale passato-presente per permettere anche allo spettatore più ingenuo, di riflettere, imparare e desiderare una realtà più equa, che non faccia distinzioni per il colore della pelle, per etnia, per cultura, ma che premi sempre e comunque il merito della persona, uomo o donna che sia.

giovedì 16 febbraio 2017

Libro - Dove si va da qui di Simone Marcuzzi



Gabriele e Nadia, fidanzati dai tempi dell’università, convivono in un appartamento della provincia del nord-est italiano. Lui è un ingegnere meccanico, manager in una importante multinazionale con diverse sedi all’estero, lei una veterinaria in una clinica veterinaria, sommersa dal lavoro e dai debiti. Gabriele e Nadia sono una coppia stabile, felice, ma comunque alla ricerca di una svolta, di quel cambiamento che permetta loro di evitare lunghi silenzi davanti alla tv alla sera rientrati dai rispettivi lavori.
Con Vorrei star fermo mentre il mondo va, pubblicato da Mondadori nel 2010, Simone Marcuzzi, classe 1981, analizzava il passaggio di un diciottenne all’età adulta. Questo Dove si va da qui pare essere il suo naturale sviluppo, in cui i protagonisti più anziani e già realizzati professionalmente sono costretti dalla vita a prendere delle decisioni senza possibilità di fuga.
Marcuzzi è bravissimo a rappresentare il contemporaneo quotidiano, fatto di viaggi in automobile, di colazioni consumate fugacemente, di cene scaldate, di telefonate, di pranzi in famiglia. L’architettura della coppia è costruita con distacco dallo scrittore friulano; un lucido distacco che pone Gabriele e Nadia esattamente sullo stesso piano, osservati esattamente dalla stessa distanza. Sono persone adulte e mature quelle che si muovono in Dove si va da qui, ma anche vulnerabili e soprattutto umane, capaci di amare, ma incapaci di dimostrarlo in una provincia italiana sconvolta dalla crisi economica che spazza via la complicità della coppia, la sicurezza e soprattutto trasforma quella convivenza basata su una solida routine in una lotta alla sopravvivenza. Una battaglia per rimanere a galla quando il cambiamento è necessario, ma tutto è immobile; quando l’amore c’è, ma non è sufficiente.

mercoledì 15 febbraio 2017

Film - Demolition - Amare e vivere (2015) di Jean-Marc Vallée



L’investitore di successo Davis Mitchell (Jake Gyllenhaal) perde la moglie in un incidente stradale. In ospedale, incapace di elaborare la notizia, prende una merendina che rimane incastrata nel distributore. A causa di quest’intoppo, Davis inizia a scrivere una serie di lettere di reclamo dirette alla ditta proprietaria del distributore. Karen (Naomi Watts), l’impiegata addetta alla customer care, rimanendo colpita dalla profondità delle lettere, contatterà Davis e, assieme al figlio Chris, ridarà una ragione di vita all’uomo.
L’elaborazione del lutto come rielaborazione emotiva dei significati, dei vissuti e dei processi sociali legati alla perdita della persona con la quale si era sviluppato un legame continua a essere un archetipo principe per qualsiasi regista voglia cimentarsi nella rappresentazione di un dramma.
Demolition – Amare e vivere vuole essere esattamente questo: la vicenda di un cinico uomo che si scopre incapace di provare dolore o sentimento alcuno per la perdita, ma che comunque sprofonda in una forma autodistruttiva di depressione. Jake Gyllenhaal è il lui di una coppia tutt’altro che perfetta, protagonista di un viaggio di riabilitazione confezionatogli su misura dal regista.
È una pellicola che paga la sua frenetica voglia di suscitare emozione, di spingere il pubblico alla lacrima. Creando un personaggio cinico, insolente e insensibile al dolore, però, Vallée ottiene fallisce nell’ottenere quell’empatia necessari da parte del pubblico e il tracciato scritto per il suo protagonista si rivela essere un percorso troppo didascalico.
Se vuoi risalire devi prima toccare il fondo e  se vuoi conoscere veramente come sono fatte le cose devi prima smontarle pezzo per pezzo: pare questo il messaggio che il regista voglia far passare; una demolizione fisica necessaria per la ricostruzione fisica degli ambienti e psico-fisica del protagonista che deve riscoprire il bello della vita. Già visto troppe volte.
Demolition è, insomma, un sincero inno alla vita, un grido alla speranza e alla felicità, uno slogan sicuramente positivo, lanciatoci però dal Gyllenhaal più antipatico degli ultimi anni.

martedì 14 febbraio 2017

Film - Barriere (2016) di Denzel Washington



Troy Maxson (Denzel Washington), netturbino della Pittsburgh degli anni Cinquanta, lotta ogni giorno contro l’ingiustizia sociale e la discriminazione razziale per riuscire a portare a casa il denaro necessario per mantenere la famiglia. Ma Troy Maxson lotta anche contro i suoi cari: contro il figlio maggiore Lyons (Russell Hornsby), aspirante musicista jazz, genere odiato dal padre amante del blues; contro il minore Cory (Jovan Adepo), amante del football a cui Troy preferisce il baseball. E contro la moglie Rose (Viola Davis), donna umile e fedele, tradita da Troy con l’amante Alberta che gli darà una bambina.
Viola Davis e Denzel Washington, regista oltre che protagonista della pellicola, tornano a impersonare Troy e Rose dopo essersi aggiudicati un Tony Award per le migliori interpretazioni maschili e femminili nel 2010.
Denzel Washington, raccogliendo lo screenplay del 1983 di August Wilson, realizza un film prettamente teatrale, basato sul dialogo. Una pellicola complessa e stratificata in cui le barriere del titolo assumono molteplici significati. Siamo nell’America degli anni Cinquanta, in una nazione in cui la discriminazione razziale è fortissima. Troy Maxson, ha sacrificato la sua carriera nel mondo del baseball a causa dell’esclusione dei neri dai campionati professionistici, e ormai troppo anziano per giocare, sfoga la sua rabbia e soffoca sul nascere i sogni di gloria del figlio. Troy è l’incarnazione dell’orgoglio; un orgoglio viscerale e incondizionato che rende Troy un uomo temibile all’interno della famiglia, irraggiungibile e distante. Troy non è un modello per nessuno. È solo una figura che condiziona ogni attimo di vita della famiglia non per la sua saggezza, ma solo per la sua presenza, un’ombra costante che incute un sentimento di sottomissione.
Le barriere sono soprattutto quelle che dividono il padre e marito Troy dalla moglie e i figli, rappresentate metaforicamente dallo steccato che senza un vero motivo Troy costruisce attorno alla sua umile dimora. La casa segna lo spazio d’azione della vicenda; uno spazio teatrale e limitato che rappresenta il dentro e il fuori della vita di Troy, il giusto e lo sbagliato. Due facce che lo stesso Troy però non riesce a tenere nettamente distinte, sciogliendosi in un incoerenza che smaschera l’uomo, rivelando una persona più attenta a essere un padrone che tiene imbrigliati i membri della famiglia, piuttosto che una persona capace di dare amore, consigli e una spalla su cui appoggiarsi.

lunedì 13 febbraio 2017

Libro - Eravamo dei grandissimi di Clemens Meyer


Daniel, Mark, Paul e Rico sono quattro amici che vivono a Lipsia negli anni a cavallo della caduta del Muro. La loro adolescenza è segnata dal mito dell’Occidente, un’illusione che dopo la riunificazione trasformerà le loro vite in una disperata ricerca del brivido, fatto di alcol, droga, risse e furti d’auto.
Eravamo dei grandissimi, pubblicato in Italia da Keller con la traduzione di Roberta Gado e Riccardo Cravero a circa dieci anni dalla sua uscita in patria, vuole essere una testimonianza dai tratti autobiografici del suo scrittore Clemens Meyer, classe 1977, che in questo suo primo romanzo monta i suoi capitoli non seguendo una linea temporale, ma preferendo invece una costruzione basata sulla tensione.
Daniel il narratore, Mark il tossicodipendente che morirà per l’eroina, il pugile Rico e Paul, sono i testimoni della fine e del fallimento del regime comunista e della Repubblica Democratica Tedesca. La città di Lipsia è il luogo del fallimento di una nazione, uno stato che in 40 anni di storia non ha saputo creare una cultura sociale, ma si è fatto schiacciare dal mito dell’Occidente, ripiegandosi di fatto su se stesso e permettendo, dopo la riunificazione post-1989, l’invasione incondizionata del capitalismo in tutti i suoi risvolti.
In una Lipsia che non è in grado di distinguere il positivo e il negativo, i quattro amici si lasciano travolgere dall’eroina, dalle discoteche, dal richiamo del sesso a pagamento, dai combattimenti di strada, dalle risse, dai furti, dalle case occupate. È un branco di giovani obbligati a crescere in una nuova terra, senza alcun valore e senza poter riconoscere una reale guida nei propri genitori, già ampiamente distrutti dall’alcolismo, e nelle autorità culturali.
Eravamo dei grandissimi è la storia di un’epoca, di persone costrette a ciondolare e a ripiegare sulle tentazioni più meschine costruite dal lato oscuro del capitalismo. Una generazione che, però, riesce a ritrovare se stessa nell’amicizia, valore universale e collante che tiene unite le persone nella condivisione dei sogni, nella speranza di una società nuova, nella speranza nell’amore.
Come in Trainspotting, ma soprattutto come in Colla di Irvine Welsh, Meyer racconta l’esistenza di un gruppo di amici testimoni e protagonisti di una generazione, personaggi incatenati a una realtà contro la quale urlano e dalla quale cercano disperatamente di fuggire immaginando un futuro migliore. Eravamo dei grandissimi  è la storia di persone disperate, pazze di speranza e innamorate della vita.