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mercoledì 31 maggio 2017

Film - Dark Night (2017) di Tim Sutton



Nel 2012 ad Aurora, in Colorado, il ventiquattrenne James Holmes uccide 12 persone e ne ferisce 58 durante la proiezione del film Il cavaliere Oscuro – Il ritorno. Dark Night, film del 2017 di Tim Sutton è la ricostruzione di quella tragica giornata attraverso lo sguardo di alcune vittime e del carnefice.
Dark Night, che nella pronuncia inglese è molto simile a Dark Knight (titolo originale de Il Cavaliere Oscuro) si inserisce a pieno titolo all’interno di quella categoria che prende il nome di shooting drama di cui Elephant di Gus Van Sant è sicuramente il maggior rappresentante. Dark Night è un film disturba, non lascia indifferenti: nonostante un epilogo scontato e già noto allo spettatore, attraverso un continuo intrecciarsi di storie e un virtuosismo registico in pieno stile indie, Sutton ricostruisce la triste vicenda scegliendo un taglio documentaristico e limitando il più possibile i dialoghi, pressochè sostituiti da continui primissimi piani e da una ipnotica colonna sonora fatta dalla chitarra e dalla voce di Maica Armata.
Dark Night è la rappresentazione di un’America deviata, in cui anche le vittime rappresentano le paranoie e i difetti di una società sempre più fuori controllo. Oltre al carnefice, tra i personaggi raffigurati da Sutton, ci sono una ragazza ossessionata dal fitness e dalla bellezza, un militare che prova a riadattarsi alla vita civile, un ragazzo fissato con in videogiochi. Vittime e assassino sono figli della stessa società, della stessa follia. L’omicida è uno solo, e fin dai primi minuti è chiara a tutti la sua identità. Eppure la sensazione è che chiunque, in Dark Night, potrebbe essere in grado di compiere terribili gesti.
Dark Night è una corsa all’inferno, un viaggio senza speranza verso la morte, in cui il regista non nasconde tutte le contraddizioni dell’american dream. C’è sicuramente una feroce critica alla diffusione incontrollata delle armi, ma anche una più sottile contestazione alla società occidentale colpevole di produrre automi in serie ossessionati dall’esteriorità, dal benessere, dal consumismo.
Dark Night è un film breve, dura poco più di 80 minuti, ma è una pellicola che colpisce nel segno: è disturbante per la precisione chirurgica di certe inquadrature e certi primi piani, angosciante per il modo con cui raggiunge e (poi in qualche modo evita) il triste epilogo finale. Siamo in presenza di un film che turba e che fa pensare, cosa rarissima nel cinema di oggi.

martedì 16 maggio 2017

Film - Scappa - Get Out (2017) di Jordan Peele



Il giovane ragazzo di colore Chris (Daniel Kaluuya), assieme alla sua ragazza Rose (Allison Williams), si prepara per trascorrere un weekend a casa dei genitori di lei. Rose non ha informato la famiglia del colore della pelle di Chris, ma assicura che questo non causerà alcun problema. Giunto nel quartiere del padre e della madre di Rose, Chris si accorge di essere, a parte i domestici della famiglia, l’unica persona nera. Nonostante l’accoglienza calorosa della famiglia, Chris continua a percepire alcune stranezze nell’ambiente. La sua etnia, infatti, lo trascinerà in terribile incubo.
Scappa – Get Out, è il brillante esordio alla regia di Jordan Peele, ennesimo prodotto del vivaio della casa di produzione Blumhouse (tra gli altri Paranormal Activity, Insidious e Whiplash). Peele, anche sceneggiatore della pellicola, ha dichiarato di essersi ispirato fortemente a La notte dei morti viventi, cult assoluto di George Romero del 1968. E in effetti, in Scappa, come nel film di Romero, la violenza esplode in un contesto radicalmente politicizzato. Mentre con La notte dei morti viventi l’epoca era quella della guerra in Vietnam, con sogno americano e mito del self-made man che venivano distrutti dalla violenza sullo schermo che mostrava le profonde contraddizioni del Paese, in Scappa il contesto è quello presente, sconvolto da un razzismo imperante che prende forma, nel film e nella realtà, attraverso diverse fobie e paranoie.
Con Scappa, la riflessione sulle contraddizioni del Paese abbraccia il genere orrorifico e si allontana da biopic e drammoni che hanno contraddistinto la scorsa stagione cinematografica (per intenderci, gli Oscar so black). Scappa è un thriller dai connotati horror, e a differenza di un film qualunque di Spike Lee – regista che più di tutti con il proprio lavoro continua a ribadire l’esistenza a Hollywood di un cinema prettamente black – mostra, con un sottile humour e con tanta suspense, il livello di paranoia degli Stati Uniti di oggi. E lo fa senza alcun fastidioso e inutile didascalismo: Peele lavora fin dall’inizio del film per simboli,  adotta soluzioni formali che stupiscono per la semplicità e l’originalità. Il regista si muove all’interno di mondi più volte esplorati dagli anni Settanta a questa parte, ma lo fa senza scopiazzare a destra e a manca. Il suo film non è il doppione di nulla e rimane in piedi dal primo all’ultimo minuto. Anzi, meriterebbe pure una seconda visione per cogliere la profondità satirica di certi passaggi.

sabato 13 maggio 2017

Film - London Town (2016) di Derrick Borte



Il quindicenne Shay vive a Wanstead, periferia nord-orientale di Londra. Nonostante la sua giovane età, Shay è costretto a occuparsi del padre (costretto al doppio lavoro di commesso in un negozio di pianoforti e tassista notturno), della sorella minore, della casa, dei debiti e dell’assenza della madre. È proprio quest’ultima che, da una comune di Londra, gli spedisce una musicassetta con incisa Clash City Rockers. Siamo infatti nel 1978, l’Inghilterra è in mano alla Thatcher e per le radio e i locali impazza il punk. Sarà proprio la scoperta di questo stile che avvicinerà Shay alla capitale inglese, all’età adulta… e a Joe Strummer.
London Town, film britannico del 2016 di Derrick Borte, non vuole essere né un biopic sulla vita del cantante dei Clash, Joe Strummer, né tantomeno il ripercorrere le tappe che hanno portato il punk a essere il principale movimento sociale di quegli anni.
London Town è piuttosto un classico film di formazione, un coming of age in cui il protagonista attraversa un viaggio fisico e interiore, costretto dalla più che anomala famiglia a una crescita rapida. In questo senso il film di Borte si dimostra abbastanza in linea con le aspettative e con gli stilemi del filone, centrando anche un finale che strappa un sorriso. Quello che però si percepisce, purtroppo, è una forte superficialità; una grossolanità che si nota soprattutto nella ricostruzione storica più che approssimativa. Il regista Borte, assieme allo sceneggiatore Matt Brown, guidati da una sorta di dovere di cronaca, confeziona un film cercando a tutti i costi di riportare tutti gli eventi storici di quel periodo. È sicuramente un intento positivo che però si sfalda dopo pochi minuti quando, sullo sfondo, si nota un furgone bianco sicuramente non appartenente a quegli anni. Ecco, a London Town manca una forma di coerenza e di compattezza. Al contrario di Sing Street o This is England (due esempi di pellicole ambientate all’incirca in quegli anni) il film si dimostra didascalico e nozionistico: mostra gli scioperi al governo britannico, i tafferugli fra punk, poliziotti e skinhead, le comunità giamaicane di Brixton. Tutto è presente nel film, ma tutto in forma farsesca, caricaturale, eccessivamente stereotipata, come il Joe Strummer interpretato da Jonathan Rhys-Meyers, un Gabibbo imbellettato  con la chitarra sempre pronta in spalla.

venerdì 12 maggio 2017

Film - Mississippi Grind (2015) di Ryan Fleck e Anna Boden



Gerry (Ben Mendelsohn) è uno sfortunato giocatore di poker in gravi condizioni economiche, che in qualche modo riesce a convincere il giocatore più giovane Curtis (Ryan Reynolds) a unirsi a lui in un viaggio attraverso Iowa, Mississippi, Arkansas e Tennessee. I due cercheranno in tutti i modi di recuperare i soldi persi in passato e di migliorare le proprie vite.
In quanto a soggetto, Mississippi Grind non si distingue certo per fantasia. Il giocatore di poker talentuoso e dall’animo puro, ma perseguitato dai fantasmi della sfortuna non è una novità nel cinema americano (Si può citare solo per fare un esempio Le regole del gioco di Curtis Hanson). Mississippi Grind, scritto e diretto dalla coppia formata da Ryan Fleck e Anna Boden riesce comunque a risultare un film godibile spostando l’attenzione dal gioco d’azzardo (fatto di poker, blackjack, dadi, roulette e scommesse alle corse dei cavalli) all’ambientazione e soprattutto allo spessore dei personaggi. Scorci di Memphis, di Little Rock e soprattutto di New Orleans, con il suo Quartiere Francese e le balconate in ghisa, accompagnano i protagonisti che si barcamenano tra un’avventura e l’altra come richiesto dalle regole del road movie classico. Mississippi Grind racconta soprattutto la storia di Gerry, uomo onesto che ha fallito come marito, come padre e come giocatore. Tramite ambientazioni e colonna sonora (in questo il film ricorda molto Black Snake Moan), Mississippi Grind mette in luce l’altra faccia della medaglia del classico american dream che molto spesso il cinema di Hollywood si diverte a creare e poi smontare. Gerry infatti, volenteroso di riscatto, si perde in un’incontrollabile dipendenza dal gioco. Una grave ludopatia che lo tiene ancorato sul fondo del baratro senza dargli via di scampo.
L’amarezza del suo volto, accompagnata dall’ironia dello scanzonato compagno di viaggio Curtis ricordano (e non poco) il Paul Giamatti e il Thomas Haden Church di Sideways – In viaggio con Jack, film del 2007 di Alexander Payne, regista che della commedia drammatica capace di rappresentare i vizi della società contemporanea ne ha fatto un marchio di fabbrica. Mississippi Grind appartiene a questo universo filmico: come una ballata di Hank Williams o Woody Guthrie, La pellicola racconta la vita di personaggi da provincia americana, uniti e animati da speranza e solidarietà.

martedì 9 maggio 2017

Film - Nocturama (2016) di Bertrand Bonello



Parigi, giorni nostri. Un gruppo di giovani si muove in maniera rapida e precisa tra la metropolitana e le strade della città. Tra di loro non ci sono dialoghi, ma l’intesa è evidente: si scambiano borse, pacchetti, messaggi cifrati via telefono. Il loro piano è quello di spargere bombe in vari punti della città e portare il terrore nelle case delle persone. Dopo un’elaborata pianificazione e preparazione, l’attentato riesce e mentre in città il panico dilaga, i ragazzi confluiscono in un grande magazzino. Durante la notte di attesa dentro il centro commerciale il piacere e l’esaltazione per la missione riuscita si trasformeranno in un’inesorabile paura di morire.
Nocturama è un film 2016 diretto da Bertrand Bonello ed è spaventosamente attuale per la storia che racconta. Una Parigi messa in ginocchio da bombe ed esplosioni non può non richiamare i tristi eventi del Bataclan del novembre del 2015. Il film di Bonello però vuole fuggire da questo tipo di lettura, tutto sommato facile: i giovani attentatori, in uno dei pochissimi dialoghi del film, giustificano le proprie azioni come l’unica soluzione che può uccidere la civiltà occidentale e capitalista, colpevole di annichilire e di alienare l’essere umano. Non c’è dunque alcun intento di denuncia del degrado delle banlieue parigine e francesi, della forma di ghettizzazione a cui sono costretti gli immigrati. Bonello piuttosto cerca di non politicizzare la violenza che mette in scena. Una violenza che nasce da una forte situazione di disagio e da una forma di paranoia, psicosi che si impossessa dei protagonisti che in tutti i modi vogliono mettere in ginocchio la società consumista.  
Non a caso i ragazzi si ritrovano in un grande magazzino: il centro commerciale,  luogo che riduce le persone in corpi senz’anima spinti solo da un alienante imperativo consumistico, in Nocturama è lo scenario in cui si palesa il vuoto dei ragazzi. Un vuoto e una mancanza che vengono colmati proprio da ciò che gli attentatori volevano contestare. Nella snervante attesa, infatti, i ragazzi si ritrovano, in maniera inconsapevole e innocente a intrattenersi con la merce esposta sugli scaffali e nelle vetrine. Secondo Bonello, insomma, la società è infetta, malata e, pur essendone consapevole, l’uomo non può liberarla dalle catene della macchina consumista.