domenica 10 settembre 2017

Libro - Il fantasma di Harlot. Il romanzo della CIA di Norman Mailer



Accostarsi a Norman Mailer non è mai semplice. C’è sempre il timore di non essere all’altezza di uno dei più grandi scrittori americani del Novecento. Uno che ha contribuito alla nascita del New Journalism, quello stile anticonvenzionale fatto di cronaca e impressioni personali molto in voga a partire dagli anni Sessanta.
Con Il fantasma di Harlot. Il romanzo della CIA, terzultima opera di fiction dello scrittore morto nel 2007, Mailer ricostruisce, l’epopea dell’agenzia di spionaggio più famosa al mondo: la CIA. Attraverso l’esistenza dell’agente Harry Hubbard, istruito fin da ragazzo, appena dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, dal mitologico Hugh Tremont Montague, detto Harlot, Mailer ripercorre la storia dell’agenzia a partire dagli anni Cinquanta, con la Guerra Fredda e con il rapporto col nemico da sconfiggere, il KGB.
Nelle oltre 1000 pagine che costituiscono il romanzo, lo scrittore ricostruisce minuziosamente con la sua solita precisione e eleganza la cronologia degli eventi che hanno scandito la vita più o meno segreta dell’agenzia di Langley e degli Stati Uniti. Ci sono dunque le prime operazioni nella Berlino divisa dal filo spinato (il muro arriverà qualche anno più tardi); ci sono le missioni nel centro e nel sud America per evitare derive comuniste. E c’è soprattutto l’odio verso Fidel Castro e il coinvolgimento della mafia italo-americana nel tentativo di eliminarlo, con l’operazione fallita alla Baia dei Porci e l’escalation di eventi che porterà all’assassinio del presidente Kennedy.
C’è, insomma, tutta la storia recentissima americana, fatta di bugie, doppi giochi e inganni e soprattutto fatta di un’imperante paranoia che porta il lettore all’interno di una spirale in cui è impossibile distinguere il bene e il male, il giusto e lo sbagliato.
Mailer dà la sensazione di voler realizzare a tutti i costi un romanzo monumentale, una vera e propria bibbia per gli amanti del genere spionistico. E nonostante alcune parti risultino leggermente stucchevoli, il racconto scardina le imposizioni del genere, comunque di intrattenimento, e riesce ad abbracciare un pubblico più ampio, spingendo il lettore a interrogarsi sulla bontà dell’operato del suo amato Paese. Un romanzo forse al giorno d’oggi datato (fuori catalogo ormai da anni), ma che comunque spinge alla riflessione.

mercoledì 19 luglio 2017

Libro - Red or Dead di David Peace



La storia del calcio è costellata di allenatori leggendari che, per i risultati ottenuti, vengono sempre accomunati al nome della squadra che hanno guidato; la Juventus di Lippi, il Manchester di Ferguson, la Grande Inter di Herrera. In quella metafora che vede il gioco del calcio come una guerra combattuta da due eserciti su un campo di battaglia, l’allenatore assume in pieno la funzione del condottiero, di  vero e proprio Alessandro Magno pronto a morire per i suoi giocatori.
A Liverpool, tra il 1959 e il 1974, questa persona è stata Bill Shankly. Bill Shankly è stato l’uomo che raccolse il Liverpool dai campi fangosi e acquitrinosi della Seconda Divisione inglese e lo portò a vincere tre campionati, due Coppe di Inghilterra, quattro Charity Shield e una Coppa Uefa.  
Red or Dead, romanzo di David Peace, racconta l’epopea di Bill Shankly sulla panchina del Liverpool ed è il seguito ideale de Il maledetto United, racconto che descriveva i 44 giorni di permanenza sulla panchina del Leeds United di Brian Clough, uno che, insieme a Shankly, è considerato tra i più grandi allenatori della storia del calcio inglese.
Red or Dead, è bene chiarirlo, non è una cronaca sportiva; il palmares del Liverpool e di Shankly sono disponibili online, non serve leggersi un libro di più di 600 pagine. Non siamo nemmeno in presenza di un memoriale calcistico intriso di quella nostalgia che al giorno d’oggi va tanto di moda. Red or Dead è un romanzo calcistico che non parla di calcio. David Peace, attraverso un’accurata ricostruzione storica basata su un’ampia bibliografia fornita al lettore nelle ultime pagine del libro, prova a spiegare l’importanza di alcuni valori sportivi e civili. Bill Shankly è stato un uomo che ha fondato la sua esistenza di marito, padre e professionista sull’umiltà, sul rispetto e sul lavoro. Dalle pagine scritte nel suo stile conciso e tagliente, Peace ricostruisce un calcio fatto di gentiluomini capaci di guadagnare molto, ma di rispettare la parola data, di sudare quotidianamente per regalare un sorriso alle migliaia di persone accalcate sulle traballanti tribune degli stadi di tutta Inghilterra. Insegna che non c’è nulla di male dal farsi prendere dall’ossessione per la vittoria, per i tre punti (che un tempo erano due), per quel successo che a fine stagione può voler dire alzare una coppa. L’ossessione, secondo Peace e secondo Shankly corrisponde alla passione, tormentosa, sanguigna, vero e proprio debito nei confronti di quelle persone che sacrificavano tempo e denaro per assistere alle gesta della squadra della città.
Red or Dead racconta come dovrebbe essere lo sport dai due lati: da chi lo pratica e da chi lo guarda. E non importa se giocate in Serie A o all’oratorio con gli amici. Perché siamo sempre e comunque tutti uomini.

domenica 2 luglio 2017

Libro - I venerdì da Enrico's di Don Carpenter



Grazie a un racconto venduto a Playboy, Dick Dubonet, aspirante scrittore, ha guadagnato 3000 dollari. Nei salotti della Portland di inizio anni Sessanta al suo fianco c’è sempre la splendida Linda, innamorata più del suo successo che di lui. La scena letteraria della città dell’Oregon è animata però anche da altri aspiranti scrittori: c’è Stan Winger, giovane scapestrato con la passione per i racconti pulp e per i furti e c’è Charlie Monel che, reduce dalla guerra in Corea, vorrebbe scrivere un romanzo bellico migliore de Il nudo e il morto di Norman Mailer e de La sottile linea rossa di James Jones. Charlie, che di Stan è l’insegnante di scrittura creativa, vive con la moglie Jaime che ha raggiunto un inatteso successo editoriale con un romanzo scritto in segreto e ispirato dalle sue memorie familiari. Le vite di questi uomini, perennemente alla ricerca di una vera autorealizzazione si intrecciano per vent’anni tra Portland, San Francisco e Hollywood, luogo capace di regalare gloria e distruggere sogni.
I venerdì da Enrico’s è un romanzo che Don Carpenter, morto suicida, ha lasciato incompiuto nel 1995. Ci ha pensato Jonathan Lethem a scovarlo nella sua casa di Mill Valley in California, a completarlo e a pubblicarlo nel 2014. È un romanzo che parla di scrittori; scrittori che inseguono la gloria, il successo, il denaro. Traspare molta frustrazione dalle pagine di I venerdì da Enrico’s. La frustrazione che prova Charlie, perennemente al lavoro sul Great American Novel, il grande romanzo americano, nel momento in cui è la moglie a sfondare sul mercato. La frustrazione di Dick nel non riuscire a replicare il suo successo (seppur minimo). C’è insomma un conflitto fra lo scrittore, perso all’interno della propria arte ma incapace di trovare una vera e propria legittimazione, e l’uomo, alle prese con i problemi di tutti i giorni come il pagare l’affitto, l’accudire una figlia. E se per alcuni la soluzione migliore è ripiegare a Hollywood adattando il proprio talento per la scrittura su commissione di sceneggiature e copioni, per altri il modo più adatto per andare avanti è il barcamenarsi in locali fumosi di cui Enrico’s ne è il simbolo, accompagnandosi con alcol scadente e sigarette ritoccate alla marijuana, mantenendo viva un’ambizione destinata a rimanere chimera.

sabato 24 giugno 2017

Libro - Il passato davanti a noi di Bruno Arpaia



L’11 settembre del 1973, il telegiornale Rai trasmette le immagini in bianco e nero del golpe cileno. Per un gruppo di ragazzi che vive in un paese alla periferia di Napoli, è un fulmine a ciel sereno. Come si fa a restare impassibili di fronte a quelle immagini? In quella stagione caldissima, fatta di bombe nelle piazze, di scioperi e lotte sindacali, Alberto Malinconico, Angelo Malecore e i loro amici sviluppano una coscienza politica e una forte voglia di rivoluzione. È però un fuoco che si spegne presto, che si scontra con una realtà difficile, minacciata dalla criminalità organizzata, ma anche dai primi amori, dalle tensioni familiari, dalle vacanze vissute all'avventura e termina con il fallimento degli stessi ideali da cui aveva preso le mosse. E se qualcuno è riuscito a tagliare i ponti con il passato, costruendosi una vita normale fatta di lavoro e famiglia, altri invece pur vent’anni dopo devono ancora fare i conti con il passato di militanza politica.
Il passato davanti a noi di Bruno Arpaia è un libro grandioso. Grandioso per le dimensioni, e per i contenuti. Lo scrittore di Ottaviano costruisce un romanzo di formazione intrecciando l’esistenza di alcuni ragazzi con la cronaca italiana degli anni Settanta. Non manca nulla: le stragi, l’assassinio di Aldo Moro, i morti nelle piazze, i movimenti operai, il femminismo, ma anche il cinema e la musica. Arpaia racconta con precisione clinica una intera generazione costruita attorno a solidi e limpidi ideali e fortemente basata su una collettività oggi sconosciuta. La voglia di rivoluzione di un gruppo di giovani napoletani alle prese con il sottosviluppo del meridione si trasforma presto in coinvolgimento, in militanza, e per alcuni in lotta armata. E quella purezza di ideali si contamina presto con il sangue, con gli scontri in piazza, con le rapine e con la clandestinità.  È in questo passaggio che molti si sono perduti: l’idealismo di quel tempo barbaramente sostituito dal sangue sulle strade, dalle bombe di Stato, dai morti nelle piazze. Arpaia racconta la nascita, lo sviluppo e il fallimento del “movimento”,  sparito, sconfitto da un ripiegamento nella vita privata, un disinteresse per la comunità e che lasciato nella memoria delle persone solo i nomi dei morti e il sangue di piazza Fontana, di piazza della Loggia, dell’Italicus, della Stazione di Bologna.
Ma tutto questo perché?   

venerdì 16 giugno 2017

Film - Nerve (2016) di Henry Joost e Ariel Shulman



Vee (Emma Roberts) è una timida liceale, amica della regina della scuola Sydney (Emily Meade) che, considerandola repressa, la spinge a partecipare a Nerve, un gioco online che pone il giocatore a reali sfide sempre più ardue in cambio di premi in denaro. Vee accetta e, nella prima di queste prove, conosce Ian (Dave Franco), che da quel momento diventa il suo partner nel gioco. Nerve porrà la coppia di fronte a sfide sempre più estreme, a tal punto da mettere in pericolo la loro vita e quella dei loro cari.
Nerve, diretto dalla coppia formata da Henry Joost e Ariel Shulman, vorrebbe essere un film che indaga e scava a fondo nei meandri meno noti e più oscuri di internet, sviscerandone la pericolosità e portandola a conoscenza del pubblico. Il gioco online Nerve, che divide gli iscritti in giocatori e spettatori è l’esaltazione del voyeurismo e dell’esibizionismo che l’avvento di internet, dei social network e degli smartphone (e della connettività in generale) ha creato. Il warholiano “quarto d’ora di celebrità” che Twitter e Instagram hanno trasformato in una vera e propria febbre da followers è il motore anche del gioco Nerve, basato proprio sul numero di spettatori. È una tematica interessante quella del film, costruita però con enorme confusione: la pellicola non spiega  le dinamiche che stanno dietro il gioco. Lo spettatore rimane in balia di un gruppo di liceali molto più simili a trentenni alle prese con i tipici drammi adolescenziali. Nerve, più che un film realizzato per evidenziare i pericoli di una parte del web, si rivela essere un teen movie in piena regola che si sofferma su un sentimentalismo trito e ritrito sabotando sul nascere quanto di nuovo il film poteva offrire.
In una società sempre più persa in un mondo virtuale e alle prese con nuovi fenomeni preoccupanti come il recentissimo Blue Whale, Nerve non analizza quel cinismo proprio tipico spettatore del web, proprietario di un’insensibilità che trasforma le persone in oggetti senza valore, bestie osservate e monitorate in attesa di una tanto attesa morte.