giovedì 9 febbraio 2017

Film - Smetto quando voglio - Masterclass (2017) di Sydney Sibilia



Pietro Zinni (Edoardo Leo), in carcere con diversi capi d’accusa dopo la creazione di una smart drugs, viene raggiunto dall’ispettore Paola Coletti (Greta Scarano) che gli propone un accordo: creare una task force per debellare il fenomeno delle smart drugs e consegnare nelle mani della polizia almeno trenta sostanze.
Il secondo capitolo di Smetto quando voglio, sottotitolato Masterclass, inizia esattamente dove era terminato il primo film. Sydney Sibilia è abilissimo, sia in fase di scrittura, sia dietro la macchina da presa a rifare le stesse scene del primo film riprendendole però da nuovi punti di vista che aggiungono informazioni contenutive. Un po’ come già visto nella saga di Jason Bourne, in Ritorno al futuro e Fast & Furious, Sibilia crea una concatenazione perfetta che forma un collegamento inscindibile col primo film con il quale il pubblico ovviamente si misura. Questo secondo capitolo, però, ha il pregio di allontanarsi da alcuni canoni appartenenti alla prima pellicola, sentendosi parte piuttosto di un universo cinematografico completamente estraneo al panorama italiano. Smetto 2, pur mantenendo la sua impostazione debitrice alla commedia all’italiana in stile Monicelli, si può definire come un primo esempio di action-comedy nazionale, un’americanata di casa nostra in cui ogni cliché del  genere trova il proprio posto. C’è il richiamo al mondo spionistico di 007 con i suoi fantomatici gadget; ci sono gli inseguimenti per le strade di Roma, una Roma psicotropa e lisergica dai colori sgargianti quasi fossero filtrati con Instagram. Ci sono le gag, esilaranti e sofisticate, che non riducono il film a una serie di sketch. È soprattutto un action: ci sono i buoni, ci sono i cattivi e c’è lo scontro finale, un assalto al treno che non può non richiamare un’intera iconografia hollywoodiana classica.
Sibilia, classe 1981, con Smetto quando voglio – Masterclass riesce nell’impresa, per un film italiano, di garantire alla sua pellicola un carattere di internazionalità senza per questo tradire la propria terra e la propria società: i due film raccontano la condizione di precariato di una classe di lavoratori, sconosciuta nella stragrande maggioranza dei Paesi esteri. Il fenomeno dei “cervelli in fuga”, è l’appiglio necessario al quale aggrapparsi per ampliare il racconto per numero di personaggi e di ambienti, ma soprattutto per non dimenticare che il grottesco delle scene deriva da una triste realtà.
Nel cinema italiano di oggi, senza una vera industria capace di progettare a medio lungo termine, la saga di Smetto quando voglio, il cui terzo capitolo è già in cantiere, si presenta come un gioiello in grado di richiamare (e speriamo di riavviare) quel cinema di genere che tra gli anni Sessanta e Settanta faceva riempire le sale di tutta Italia in nome di un sano e innocente intrattenimento.

mercoledì 8 febbraio 2017

Film - Jackie (2016) di Pablo Larraín



La figura Jacqueline Kennedy, che nel suo tailleur rosa imbrattato di sangue, presenzia al giuramento dl Lyndon B. Johnson poche ore dopo l’assassinio del marito è una delle immagini più terribili e iconiche del secondo dopoguerra americano. Jackie caparbia nel voler apparire in pubblico fin dai primissimi minuti dopo l’omicidio si staglia nell’immaginario collettivo occidentale come figura femminile di enorme coraggio e contegno, un esempio per tutti.
Jackie, primo film americano del regista cileno Pablo Larraín, è la ricostruzione del travaglio interiore vissuto dalla first lady nei giorni seguenti al brutale omicidio del marito a Dallas.
Una settimana dopo la vicenda, Jackie (Natalie Portman) decide di incontrare a Hyannis Port, Massachusetts, tenuta estiva della famiglia, Theodore H. White, giornalista di Life. L’intento è quello di costruire un racconto eterno che possa innalzare la figura di JFK e della moglie nell’olimpo degli immortali.
Pablo Larraín, in collaborazione con lo sceneggiatore Noah Oppenheim, riesce nel tentativo di riscrivere le regole del biopic classico hollywoodiano. Jackie è un concentrato di avvenimenti che non seguono alcuna linea temporale e che soprattutto miscelano la verità, quella del documento televisivo e del filmato originale, e la menzogna. Una menzogna volontaria, una pseudologia cosciente quella messa in piedi dalla moglie del Presidente, persona distrutta dal lutto e dalla perdita, ma soprattutto dalla paura di essere dimenticata, di perdere tutto e di cadere nell’oblio come James A. Garfield e William McKinley, anonimi Presidenti assassinati ben prima di Kennedy. La genialità di Larraín sta proprio qui: la verità pura non può mai essere raggiunta, ma può esistere solo attraverso la mediazione di un punto di vista, di una fonte. Il regista cileno rifiuta quindi l’esatta costruzione storica degli eventi più volte affrontata dal cinema e dalla pubblicistica in prodotti di variabile qualità.
La macchina da presa segue per tutta (ma proprio tutta) la durata del film Jackie, interpretata da Natalie Portaman che stanislavskijanamente contiene e sopprime il dolore della perdita. Jackie non è e non vuole essere l’elaborazione del lutto, ma la messa in scena dell’umanità di una donna, nascostasi per anni dietro la sua immagine pubblica, nel tentativo di rimanere aggrappata alle proprie certezze, ai propri ambienti e ai propri averi. La Casa Bianca, mai così sfarzosa e elegante al cinema è la Camelot della donna, il terreno su cui costruire e architettare la propria immortalità. Una serie di stanze enormi e luminose, un tempo sfarzose ma oggi vuote e silenziose, enucleazione dell’incertezza e della paura che rendono tutti noi inesorabilmente animali indifesi.

martedì 7 febbraio 2017

Libro - Darling Days di iO Tillett Wright



iO è nata nel 1985 nel Lower East Side di Manhattan, luogo di sbandati e tossici, di reietti della società. È figlia di una bizzarra donna, ballerina e attrice, poetessa e showgirl. Una donna dall’animo intrinsecamente punk, che nella sua alter natività dona tutto il suo amore alla figlia.
A sei anni la bambina iO, d’accordo con i genitori decide di far credere a tutti di essere un maschio. Fino a 14 anni, quando la pubertà smaschera tutto. iO decide quindi di scappare in Europa, prima in Germania e poi in Inghilterra dove scopre il sesso e l’attrazione sessuale.
iO oggi ha 31 anni compiuti, ha fatto ritorno negli Stati Uniti dove oggi è un artista, attore (sì, al maschile) e attivista. Darling Days è la sua autobiografia tradotta in italiano per Il Saggiatore da Sarah Victoria Barberis.
Ma chi è effettivamente iO? iO si definisce un essere umano ibrido, ma questo poco importa. Darling Days non è e non vuole nemmeno essere un trattato di presunta scienza o attualità sulle teorie del gender e l’identità di genere. iO non ha scritto le sue memorie con l’obiettivo di assurgersi a paladino della comunità gay. Proprio no.
Qui siamo in presenza di un essere umano. Una persona meravigliosamente sensibile con se stessa, capace di ascoltarsi, di capirsi e soprattutto di cambiare e ribellarsi, senza alcun timore verso le etichette e le categorie. Una persona in grado di ricevere amore, ma soprattutto capace di amare e di prendersi cura dei genitori, anime perdute in balia della droga, cancro di quel Lower East Side precedente al repulisti del sindaco Giuliani, in cui fra la Bowery e Alphabet City si diffondeva la cultura punk. È una tribù di sbandati perennemente controcorrente quella con cui ha a che fare iO; una tempesta che la fa vacillare ma che non la spazza. Darling Days è un libro sulla sopravvivenza, sulle battaglie, anche interiori, di una persona che lotta volenterosamente per ritagliarsi il proprio spazio nel mondo. Un inno alla speranza per quelli che hanno paura di non farcela e un invito, per chi ce l’ha fatta, a non distruggere gli altri con le proprie aspettative.

domenica 5 febbraio 2017

Film - Draft Day (2014) di Ivan Reitman



Per ogni tifoso o appassionato di sport americano (sia questo il basket, il baseball, il football o l’hockey) che si rispetti, c’è una data particolare da evidenziare sul calendario, un giorno di vitale importanza per le sorti della propria squadra del cuore. È il giorno del draft.
Il draft è il sistema adottato dalle leghe per la selezione dei giocatori senza contratto. È il sistema con cui le varie franchigie si danno battaglia per accaparrarsi i più promettenti talenti provenienti dal mondo del college che sbarcano nel professionismo ed è basato su una sorta di sorteggio che stabilisce l’ordine di scelta.
Draft Day, pellicola del 2014 diretta da Ivan Reitman, ricostruisce questa fatidica giornata attraverso gli occhi e le gesta di Sonny Weaver Jr. (Kevin Costner), direttore generale della squadra di football dei Cleveland Browns, intento a risolvere i problemi della suo team cercando di selezionare i giocatori migliori.
Anche se in Draft Day l’azione sportiva e il campo da gioco rimangono sullo sfondo, il film si inserisce pienamente il quella selva di pellicole ambientate nel mondo dello sport in generale. E, come la gran parte dei suoi fratelli, Draft Day ha la qualità di non annoiare mai lo spettatore e di procedere con ritmo incalzante fino ad approdare al finale trionfante e scontato che lo spettatore aspettava.
Draft Day è la classica favola americana in cui lo spettatore si immedesima nel personaggio interpretato da Kevin Costner, uomo comune chiamato a superare ostacoli e difficoltà per raggiungere la gloria e il riscatto personale. È un film di puro intrattenimento, scevro da qualsiasi intenzione di critica al mondo del football o dello sport in generale, universi in costante sviluppo in cui gli obiettivi dei tifosi collimano sempre meno con quello dei dirigenti, attenti perlopiù a far quadrare i bilanci.
Draft Day è Un film che scivola via, da guardare in vestaglia al caldo, quando è domenica e fuori piove.

sabato 4 febbraio 2017

Film - Barry (2016) di Vikram Gandhi



Più delle tv e delle majors hollywoodiane, ad intercettare il vento che soffia  e che muove l’attualità americana e non, e a battere il ferro caldo è Netflix, piattaforma che continua a dimostrarsi fucina di esperimenti e creazioni dagli standard sempre più alti.
Barry, distribuito worldwide il 16 dicembre, avrebbe potuto e voluto essere un fulgido esempio della politica produttiva del colosso di Los Gatos.
Barry sembrerebbe essere il saluto d’addio all’ormai ex Presidente Obama; una forma di biopic ibrido che riprende una frazione minuscola della vita dell’uomo.
Siamo a New York. È il 1981, l’anno più violento nella storia della Grande Mela, quello ricostruito da J.C. Chandor nel 2014 in 1981: Indagine a New York. In una fumosa città che trasuda odio e violenza, razzismo e povertà, si muove il ventenne Barry- Barack (Devon Terrell), studente iscritto alla Columbia University. È in questo ambiente che il ragazzo si scontrerà con temi d’importanza sociale, si misurerà con l’amore e affronterà un complicato  rapporto con i genitori.
Vikram Gandhi e Adam Mansbach, rispettivamente regista e sceneggiatore del film, riducono la vita di un uomo che sarà Presidente degli Stati Uniti d’America a un’accozzaglia  di scenette completamente slegate fra loro cercando di trasformare in film di formazione la vita del giovane Barry.
L’intento che il film si pone è quello di cercare nel passato di Obama una spiegazione alle politiche adottate poi nei suoi otto anni di Presidenza. Ma è un intento che non viene assolutamente rispettato, schiacciato dal personaggio di Barry stesso, completamente sfasato rispetto al tempo, al luogo e alle persone in cui è inserito. Il giovane Obama sembra l’unico idealista del suo tempo. L’unico incline al ragionamento filosofico e sensibile alle tematiche sociali che il film cerca di proporre: razzismo, povertà, uguaglianza vengono propinati allo spettatore in maniera talmente stereotipata da risultare invisibili e impalpabili.
Poteva essere uno dei primi casi in assoluto in cui il cinema americano congedasse degnamente e pressoché live un suo Presidente e invece Barry finisce per assomigliare a uno di quegli instant books che si trovano in edicola, da comprare insieme a qualche rivista dalla tiratura in calo. Peccato.