martedì 21 marzo 2017

Film - L'anno del terrore (1991) di John Frankenheimer



Roma, primavera del 1978. David (Andrew McCarthy), un giornalista americano già da cinque anni nella capitale, sogna di scrivere un romanzo di successo e per farlo decide di sfruttare gli avvenimenti della cronaca italiana. L’Italia sta vivendo infatti gli anni di piombo e il problema del terrorismo è all’ordine del giorno. David è amico di Italo (John Pankow), un professore universitario con contatti all’interno delle Brigate Rosse, ha una relazione con Lia (Valeria Golino), ragazza di buona famiglia, e a un ricevimento conosce Alison (Sharon Stone) intraprendente fotoreporter che sposa l’idea del romanzo di David e si offre di aiutarlo nelle ricerche. I due però capiranno presto che le loro fantasiose teorie non sono molto distanti dalla realtà.
Il 1978, per l’Italia è stato veramente L’anno del terrore, titolo di questa pellicola diretta dall’esperto John Frankenheimer. È l’anno del rapimento e dell’assassinio di Aldo Moro, drammatico evento che sconvolse l’Italia e il mondo. Il film di Frankenheimer ruota attorno a questo fatto senza mai centrarlo del tutto. L’anno del terrore è una pellicola completamente sbagliata: sbaglia nella ricostruzione del periodo, non approfondisce la situazione politica italiana e mischia Brigate Rosse, comunismo, movimenti operai, scioperi e terrorismo negando allo spettatore qualsiasi spiegazione; addirittura regista e sceneggiatore confondono Aldo Moro e Enrico Berlinguer. Insomma L’anno del terrore è un film americano nella sua accezione più negativa: pizza, mafia e mandolino non vengono nominati, ma poco ci manca. La cronaca italiana è trattata sempre da una distanza di sicurezza, e l’approfondimento dei fatti si adatta su un modello wikipedia.
Rimane solo la storia di finzione costruita attorno agli avvenimenti reali. Rimane la figura classica dell’incorruttibile giornalista che si fa agente segreto e raggiunge la verità aiutato dalla bella e disponibile aiutante. Quello che doveva essere un film in grado di mostrare al pubblico cosa fossero stati gli anni di piombo, finisce con l’essere un pasticcio spionistico in cui vincono gli sbadigli e la noia.

lunedì 20 marzo 2017

Film - Allied - Un'ombra nascosta (2016) di Robert Zemeckis



1942. Il comandante d’aviazione franco-canadese Max Vatan (Brad Pitt) è in missione a Casablanca: insieme all’agente Marianne Beausejour (Marion Cottilard), per l’occasione sua finta moglie, deve riuscire a farsi invitare a un ricevimento nell’ambasciata tedesca e, una volta all’interno, uccidere l’ambasciatore. La missione riesce e fra i due sboccia pure l’amore. Sistematisi a Londra, sposati e con una figlia, la coppia vive serenamente. Un giorno però Max viene avvisato dai superiori che la moglie è una spia tedesca. L’uomo, ovviamente scioccato dalla notizia, da quel momento ha 72 ore di tempo per provare l’innocenza della moglie, altrimenti dovrà ucciderla.
C’è Robert Zemeckis alla regia di Allied – Un’ombra nascosta, e la produzione non poteva scegliere regista più adatto. Zemeckis è un perfezionista amante della Hollywood classica perennemente alla ricerca della correttezza formale, e non un iconoclasta impegnato nella distruzione e ricostruzione dei generi. Con Allied, il regista di Forrest Gump richiama, e non poteva fare altrimenti, interi decenni di storia del cinema americano. L’ambientazione marocchina, che ovviamente ricorda il Casablanca di Michael Curtiz, strizza l’occhio anche a L’uomo che sapeva troppo di Hitchcock. Sono rimandi evidenti all’epoca d’oro di Hollywood, un’industria basata sullo star system e  sull’importanza del  physique du rôle. Zemeckis riesce a ricreare, grazie alla potenza dei suoi protagonisti, la stessa tensione dei drammi di sessant’anni fa, e permette allo spettatore, tramite un sottile gioco fatto di inquadrature, sguardi e costumi, di inserire Pitt e la Cotillard all’interno di un insieme popolato dai vari Cary Grant, James, Stewart, Ava Gardner o Lauren Bacall.
Intendiamoci, Allied non è un capolavoro: mentre Salvate il soldato Ryan era un colossale war movie, sostanzialmente perfetto per aderenza alla storia e conformità al genere, il film di Zemeckis è un buon dramma sentimentale che permette, anche allo spettatore meno colto, di scovare e apprezzare i rimandi al passato. Allied rimane avvinghiato alla forza della coppia protagonista e riesce a offrire sequenze di alto cinema (la scena d’amore durante la tempesta di sabbia è da manuale); Zemeckis, dimostrando che per lui i tempi migliori non sono ancora passati, nasconde i buchi di una sceneggiatura, scritta da Steven Knight, incapace di dare il giusto valore alla spy story che rimane inesorabilmente sullo sfondo.

domenica 19 marzo 2017

Top 7 - I migliori horror italiani



C’era un tempo felice in cui il cinema italiano si cimentava con destrezza e ingenuità in imitazioni a costi ovviamente ridotti dei vari capolavori che l’industria americana propinava a tutto il mondo. C’era un tempo in cui agenti segreti, vampiri, supereroi, soldati e zombie sguazzavano sui set di Cinecittà, la nostra Hollywood sul Tevere.
C’era un tempo, prima che le tv private si portassero via tutto, in cui l’Italia sfornava film horror di pregevole fattura, che riuscivano a distaccarsi per inventiva dagli originali americani. Noi dell’Ignorante vogliamo, un po’ nostalgicamente, tornare a quella magica stagione di cinema riscoprendo quelli che per noi rimangono i sette gioielli più preziosi del cinema di paura del nostro Paese.
7 – I corpi presentano tracce di violenza carnale (1973) di Sergio Martino. Titolone! Conosciuto all’estero anche come Torso, il film di Sergio Martino è un ottimo esempio di giallo italiano, in cui detective story, ma soprattutto orrore ed erotismo si fondono in un mix di sadismo e violenza. Per gli esperti è un must, per tutti gli altri è da riscoprire.
6 – I tre volti della paura (1963) di Mario Bava. Mario Bava è un po’ il padre simbolico dell’horror italiano e con I tre volti della paura Bava costruisce un film a episodi chiamando in causa addirittura il celebre Boris Karloff. I tre volti della paura è un finissimo esempio di horror gotico italiano, apprezzatissimo anche all’estero, soprattutto da Tarantino.
5 – Non si sevizia un paperino (1972) di Lucio Fulci. Fulci è sicuramente noto in tutto il mondo per le sue pellicole iper splatter tra gli anni Settanta e Ottanta, capolavori come Zombi 2 e Paura nella città dei morti viventi. Noi dell’Ignorante, però, preferiamo ricordarlo con questo morboso giallo ambientato in un paesino retrogrado del sud Italia. Non si sevizia un paperino è veramente un film inquietante e disturbante in certe sue scene. C’è proprio tutto: repressione religiosa, sessualità, pedofilia, e ovviamente violenza e sadismo.
4 – Cannibal Ferox  (1981) di Umberto Lenzi. Il cannibal movie è un filone del cinema horror prettamente italiano. Senza dilungarci in inutili approfondimenti, vi citiamo le due scene cult: l’evirazione e lo scoperchiamento della calotta cranica di John Morghen, alias Giovanni Lombardo Radice, e la morte di Zora Kerowa appesa per le mammelle e infilzata con degli uncini. Non c’è bisogno di aggiungere altro.
3 – Reazione a catena (1971) di Mario Bava. Assieme a Sei donne per l’assassino, probabilmente è il film che più di tutti ha contribuito alla nascita e allo sviluppo dello slasher movie hollywoodiano. La saga di Venerdì 13 e quella di Halloween nascono soprattutto dalla violenza di Reazione a catena. Il film di Bava è la messa in scena e l’esasperazione della cattiveria dell’uomo, palesata con un body count invidiabile.
2 – Sei donne per l’assassino (1964) di Mario Bava. È il film che segna un prima e un dopo nel cinema di genere italiano. L’assassino dal volto coperto e vestito di pelle nera, capace di delitti efferatissimi nasce proprio qui. In Sei donne per l’assassino ogni omicidio diventa una performance d’autore sempre diversa per modalità. Da ricordare l’omicidio per ustione di Mary Arden, e  quello di Claude Dantes nella vasca da bagno. Stiamo parlando di un capolavoro.
1 – Cannibal Holocaust (1980) di Ruggero Deodato. “Cosa cazzo ho appena visto?” potrebbe essere un’ottima recensione per questo film che veramente lascia senza parole. Si è detto proprio di tutto su Cannibal Holocaust; noi, un po’ banalmente, vi segnaliamo il tema principale scritto da Riz Ortolani e la celeberrima scena dell’impalamento dell’indigena. Un capolavoro unico per il modo con cui riesce a mostrare la violenza umana. Pazzesco, film così non ne fanno più.

sabato 18 marzo 2017

Film - Space Cowboys (2000) di Clint Eastwood



Un vecchio satellite russo è fuori controllo e rischia di cadere sulla Terra. Dato che nessuno è in grado di fronteggiare una tecnologia così antiquata, la Nasa si rivolge all’anziano Frank Corvin (Clint Eastwood), originariamente a capo del progetto Dedalus sciolto negli anni Cinquanta. Frank, desideroso di tornare nello spazio, ricostituisce il suo team dell’epoca. Il suo vecchio e odiato capo Bob Gerson (James Cromwell), responsabile della missione, non ha però nessuna intenzione di spedire gli arzilli pensionati in orbita. La strategia è infatti quella di sfruttare le loro conoscenze per preparare una squadra di giovani reclute. Ovviamente non tutto andrà come previsto e Frank e i suoi saranno costretti a partire.
Prima di rivisitare la storia recente del suo Paese, prima di rileggere la guerra in Iraq, quella in Corea e i conflitti mondiali, Clint Eastwood era un regista votato all’action, amante del western e figliastro di Don Siegel e Sergio Leone. Con Space Cowboys, film a metà fra l’azione e la fantascienza, il vecchio Clint continua un percorso tutto personale all’interno dei generi e dei miti che hanno reso grande Hollywood.
Space Cowboys è la classica corsa contro il tempo in cui la guerra generazionale fra giovani forti, atletici ma inesperti, e anziani acciaccati ma svegli viene vinta da quest’ultimi che riescono a sbrogliare la matassa e a riscuotere la tenerezza del pubblico. In Space Cowboys è tutto perfettamente allineato ai canoni del cinema classico: c’è la frontiera, rappresentata non più dal selvaggio west, ma dallo spazio, c’è un cattivo da affrontare, un satellite scassato ovviamente russo, e ci sono i buoni, personaggi tutti d’un pezzo a cui Eastwood ha tolto i cavalli e i cinturoni e li ha sostituiti con le tute spaziali.
Insomma, Eastwood non riscrive i generi del cinema. Non è un Tarantino che ruba, mescola e ricrea: al contrario, semplicemente si diverte a rievocare i miti di un passato nostalgico in un cinema sicuramente di qualità (anche perché i fondi e i mezzi utilizzati sono notevoli), mirando, e riuscendo a ottenere, soprattutto l’intrattenimento del suo pubblico.

venerdì 17 marzo 2017

Libro - Follie di Brooklyn di Paul Auster



Raggiunta la pensione, Nathan Glass decide di trasferirsi al Brooklyn, sua città natale, per vivere in serenità il tempo che gli resta. Ha combattuto e sconfitto un tumore ai polmoni, è divorziato e non riesce a mantenere un buon rapporto con la figlia Rachel. Il suo progetto, oltre quello di aspettare la morte, è quello di scrivere un romanzo che raccolga la follia umana. I suoi piani però vengono stravolti grazie al ritrovato nipote Tom, la nipote Aurora e la sua figlioletta Lucy, che trascineranno Nathan in un vortice di avventure che gli faranno scoprire nuovi lati dell’umanità e gli forniranno materiali per il suo libro.
Paul Auster è uno degli scrittori di punta della narrativa contemporanea statunitense e non lo scopriamo certamente noi. Con Follie di Brooklyn però, Auster costruisce un racconto che fatica a stare in piedi a causa della sua spensieratezza mischiata a temi drammatici e terribili che vengono trattati. Follie di Brooklyn è una catena di racconti e biografie. Auster sembra volersi soffermare sull’importanza dei rapporti umani e del valore di una vita narrata, potente strumento che dà valore alle anonime vite di ognuno di noi. È uno spunto interessante, geniale a tratti, che però si perde un po’ nei risvolti della trama, mai uniforme e troppo frammentata.
Intendiamoci, stiamo parlando di un grande autore e Follie di Brooklyn è sicuramente un buon romanzo. Manca però una vera direzione intrapresa; sembra che molto sia rimasto nella penna dello scrittore e alla fine il lettore (o almeno noi che l’abbiamo letto) rimane con il dubbio su cosa siano esattamente le follie del titolo. Per carità di follia umana nel racconto se ne può trovare senza doversi nemmeno impegnare, ma il richiamo all’11 settembre delle ultime pagine (le ultimissime due!) sembra quasi una trovata dell’editore che, con una quarta di copertina costruita ad hoc, vuole sviare il pubblico sfruttando un tema a cui il pubblico, nel 2005, anno di pubblicazione del romanzo, mostrava una comprensibilissima sensibilità.