venerdì 3 febbraio 2017

Libro - Il Paese che amo di Simone Sarasso



Con Il Paese che amo, edito dai tipi della Marsilio, Simone Sarasso conclude il racconto del lato oscuro del lungo dopoguerra italiano con il capitolo finale della trilogia iniziata con Confine di Stato e proseguita con Settanta.
In Il Paese che amo ritroviamo i personaggi già conosciuti nelle precedenti parti della trilogia a cui si aggiungono characters nuovi, alter ego di personalità che hanno caratterizzato e condizionato la storia del nostro Paese dagli anni Ottanta a oggi.
C’è proprio tutto. C’è la mafia e la stagione delle bombe, c’è Bettino Craxi e il suo Partito Socialista. Ci sono le tv private, la Milano da bere e la Uno Bianca. C’è Tangentopoli e la figura di Domenico Incatenato che ricorda molto quella di Antonio di Pietro. Sarasso, come nei precedenti due romanzi, è abilissimo nel rievocare e legare fra loro  fatti e avvenimenti del tempo utilizzando un linguaggio visivo in linea con il mezzo cinematografico; un linguaggio dalle venature pulp, graffiante e tagliente come il suo grande modello, quel James Ellroy che, prima di Sarasso, aveva ricostruito la storia del suo Paese, gli Stati Uniti, da Kennedy al Watergate.
Ma con Il Paese che amo il giovane scrittore italiano si allontana in parte dal lavoro di Ellroy. In questo ultimo romanzo che chiude degnamente la trilogia, Sarasso sacrifica la correttezza storica per concedersi licenze dettate dalla voglia di lasciar primeggiare la fiction, nel suo stile fumettistico e personale, sull’aderenza ai fatti.
È una scelta che si rivela più che azzeccata, perché il periodo storico trattato, al contrario delle prime due parti della trilogia, non permette di arrivare a conclusioni di alcun tipo: oggi, nel 2017, la strategia della tensione e gli anni di piombo si possono definire periodi bui conclusi, mentre il lerciume portato nella nostra società e nel nostro costume da anni di pratiche clientelari e  loschi personaggi da tv private ancora, ahinoi, non è misurabile.

giovedì 2 febbraio 2017

Film - La battaglia di Hacksaw Ridge (2016) di Mel Gibson



Desmond Doss (Andrew Garfield), cristiano avventista, si arruola volontariamente nel esercito americano durante la seconda guerra mondiale. Sarà il primo obiettore di coscienza per essersi opposto all’uso di qualsiasi arma e verrà impiegato come medico nella battaglia di Okinawa in Giappone salvando la vita a 75 soldati, diventando il primo obiettore di coscienza a ricevere la medaglia d’onore.
La battaglia di Hacksaw Ridge è un film sulla non-violenza; una non-violenza che esplode nel contrasto con la brutalità e con la follia sanguigna che il conflitto bellico mette in evidenza. Nella seconda parte del film vi è una vera esplosione di questa contraddizione visiva che fuoriesce dal campo cinematografico. È Impossibile non pensare che il suo regista, Mel Gibson, persona macchiatasi di episodi di violenza e di discutibile moralità in passato, abbia scelto di portare la vera storia di Desmond Ross sul grande schermo nella ricerca di una sorta di espiazione per le sue cattive condotte passate.
Desmond Doss è una persona religiosissima, un cristiano avventista, anch’egli macchiatosi di un episodio di violenza nei confronti del fratello minore in gioventù, che ha promesso a Dio di non uccidere, di rifiutare la violenza anche durante la guerra.
Questa religiosità di Desmond, mai eccessiva o bigotta si trasforma in necessità di fare del bene, di contrastare quella violenza che solo la guerra sa portare e che Mel Gibson non esita a riproporre in maniera più che esplicita ma non gratuita. È qui che si legge la critica di Gibson ai cinecomics, colpevoli a detta sua di svuotare la violenza di quella coscienza che permetterebbe di evitarla.
È una crociata quella intrapresa dal regista. Un percorso di redenzione segnato dalla fede, da Braveheart, fino ad Apocalypto, concetto questo che ri-disegna la figura dell’eroe cinematografico americano e segna il ritorno di uno dei pochi registi a mettere sullo schermo i propri travagli interiori.

Film - Hell or High Water (2016) di David Mackenzie



Hell or High Water è stato distribuito nelle sale americane il 12 agosto 2016. In Italia non ha trovato distribuzione nei cinema, ma è stato reso disponibile da Netflix dal 18 novembre. Il film ha poi ottenuto 4 nominations agli Oscar, tra cui quella per il miglior film e quella per la sceneggiatura originale, dimostrando di come ormai una pellicola non abbia necessariamente bisogno del passaggio in sala per colpire positivamente critica e pubblico.
Siamo in Texas. L’ex detenuto Tanner (Ben Foster) e suo fratello Toby (Chris Pine) studiano e mettono in pratica una serie di rapine a piccole banche con lo scopo di salvare il ranch di famiglia, costruito proprio su un grande giacimento di petrolio, ma pignorato dalle banche. Un ranger tutto d’un pezzo (Jeff Bridges) si mette sulle loro tracce come ultimo caso prima del pensionamento.
Accolto positivamente dal pubblico del Festival di Cannes, Hell or High Water è stato definito da più parti come un western moderno. A ben vedere però, il film di David Mackenzie non presenta le caratteristiche che contraddistinguono il cinema western. Hell or High Water è ambientato nella provincia texana, lontana dalle grandi città, ma distante (anche temporalmente) dall’incontaminato West a cui questo genere solitamente si aggrappa. In Hell or High Water non c’è il mito della Frontiera, non ci sono cavalcate selvagge verso il tramonto, saloon e fuorilegge. È semplicemente uno scontro tra buoni e cattivi con Jeff Bridges che interpreta alla perfezione l’uomo d’ordine che funge da normalizzatore libidinale nei confronti delle istanze pulsionali rappresentate dai criminali Tanner e Toby. Al di là della ricerca di una categoria-genere in cui poter inserire Hell or High Water, il film può essere visto come la cruda messa in scena del Texanism, la filosofia di vita di gente rimasta inalterata nel tempo e avvinghiata a semplici valori come la famiglia, la difesa della proprietà privata, la routine quotidiana. Valori puri che i personaggi rappresentati da Mackenzie non esitano a difendere con un uso scriteriato di armi e violenza, con un forte razzismo e estremismo religioso.
Ecco allora che Hell or High Water si impregna di quella critica sociale perfettamente in linea con il delicato momento che gli Stati Uniti stanno vivendo ora con il cambio presidenziale rendendo di fatto vana una forzata ricerca tra i generi.

mercoledì 1 febbraio 2017

Film - Arrival (2016) di Denis Villeneuve



È il 2016 e sulla Terra sono arrivati gli extraterrestri: dodici navicelle aliene sparse per il globo galleggiano in cielo in attesa di contatto con il popolo terrestre. La linguista Louise Banks (Amy Adams) e il fisico Ian Donnelly (Jeremy Renner) sono reclutati dal colonnello Weber (Forest Whitaker) per cercare di trovare un linguaggio comune con la nuova forma di vita, mentre nel mondo si dibatte sulle reali intenzioni dei misteriosi invasori.
Con Arrival Denis Villeneuve, canadese adottato ormai da un lustro dal cinema hollywoodiano, riesce a proseguire quel piccolo filone di fantascienza adulta dagli intenti filosofici a cui appartengono Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) e il più recente Interstellar (2014) di Nolan.
La forza e il peso di Arrival sta tutto sulle spalle di Amy Adams, attrice formidabile, linguista di successo dal passato scosso per la scomparsa della figlia, incaricata dal governo americano di stabilire un contatto linguistico con gli alieni. L’idea geniale del film è proprio qui: Independence Day  (1996) e La guerra dei mondi (2005) sottointendevano un popolo extraterrestre violento e conquistatore per dare spazio all’action e agli effetti speciali. Arrival no: tema centrale del film è la comunicazione: un dialogo pacifico fra civiltà e identità sconosciute. Un tema banalissimo, solitamente trascurato, ma di spaventosa attualità.
Il film di Villeneuve ha il pregio di esprimere nitidamente un timore per lo straniero, portando nella fantascienza quella xenofobia latente che dilaga in tutto il mondo occidentale nei nostri giorni. Arrival è un concentrato di tematiche comuni e scottanti coniugate a un perfezionismo tecnico che nasconde quei piccoli passaggi a vuoto e quei difetti dovuti al coraggio e alla sperimentazione che un genere come la fantascienza pretende.

Film - La La Land (2016) di Damien Chazelle



Los Angeles. Mia (Emma Stone) è un’aspirante attrice che lavora come cameriera in un caffè. Sebastian (Ryan Gosling) è un pianista jazz che si mantiene suonando nelle cover band e nei piano bar costretto a svendersi suonando jingle natalizi.
L’inevitabile incontro tra i due porterà l’amore, ma l’ostinazione nel cercare di realizzare i propri sogni metterà in bilico la loro relazione.
Damien Chazelle, regista di questo La La Land, è uno dei nomi di punta della Hollywood degli anni Dieci di questo secolo. Trentaduenne, al terzo lungometraggio, Chazelle torna dopo Whiplash del 2014, a dichiarare tutto il suo amore nei confronti del jazz. La La Land è un musical hollywoodiano classico, in cui musica e danza sono i mezzi che permettono a Chazelle di sviscerare tutto il suo virtuosismo e il suo eclettismo con la macchina da presa. E il musical, ancora una volta, si dimostra essere il genere cinematografico che garantisce libertà e inventiva pressoché assoluta al suo regista. La La Land è un film impeccabile da un punto di vista tecnico; ha fatto e farà scorpacciata di premi.
Chazelle, oltre che abile e sapiente artigiano-artista della telecamera e del montaggio, dimostra di essere anche sopraffino cinefilo, costellando la sua pellicola di evidenti richiami e citazioni: c’è 8 ½ di Fellini, c’è Gioventù bruciata, ci sono Casablanca e Ingrid Bergman, c’è Cantando sotto la pioggia. Insomma, si strizza l’occhio a quella Hollywood che l’odierna Los Angeles pulita e colorata ripresa da Chazelle vorrebbe richiamare; un’epoca cinematografica classica, basata su una solida industria e su un forte star system.
Questo eccesso di nostalgia, però, finisce con ridurre la sceneggiatura a una semplice struttura boy meets girl, struttura che nel 2017 risulta stereotipata, ovviamente già vista e persino noiosa. Se La La Land vuole gridare al pubblico americano e mondiale che il musical è ancora vivo e lotta insieme a noi, dall’altro lato non riesce a sviluppare o a trovare altre vie a forme narrative già esistenti quasi 90 anni fa.
Il dominio alla cerimonia dei Golden Globes e il probabile bis agli Oscar, pongono dei dubbi sui metodi utilizzati per giudicare la stagione cinematografica americana (per non dire mondiale): è possibile che in questi 12 mesi non sia stato realizzato nessun film capace di strappare a La La Land almeno un premio?