mercoledì 26 aprile 2017

Libro - Il salto. Elegia per un amico di Sarah Manguso



Il 23 luglio 2008, a New York, Harris J. Wulfson si getta sotto un treno della metro. Harris componeva musica e amava le donne, aveva un lavoro, un amore e una vita piena, a tratti felice. Harris però soffriva: la felicità si alternava a momenti di pazzia, di psicosi. Ed è proprio dopo uno di questi momenti di buio che Harris fugge dall'ospedale dove è ricoverato e si lancia sotto un treno della metro. Per Sarah Manguso la scomparsa di Harris è la perdita di un amico, il miglior amico. L'autrice, però, non vuole ricostruire le circostanze del suicidio e neppure scrivere la sua biografia. Il salto è una sorta di memoir, ma soprattutto uno sfogo: un componimento toccante e profondo su cosa vuol dire perdere una persona e convivere con la sua assenza. Il salto è una serie di flash, di brevissimi pensieri, aneddoti, riflessioni su chi è stato Harris, su chi è stato per gli altri, sul significato e le conseguenze delle sue azioni.
È incredibile come nello stesso tempo ci affezioniamo a Harris e ci disinteressiamo della sua vita; Il salto è, come dice il sottotitolo, un’elegia per un amico, improntato però a motivi di confessione autobiografica. Sarah Manguso in questo centinaio di pagine si apre completamente al lettore, si spoglia e racconta attimi privatissimi della sua vita. La scrittrice si dimostra, per alcuni trascorsi, molto vicina a Harris e proprio per questo riesce con lucidità e distacco a trattare il tema del suicidio. Nelle sue parole non c’è rabbia o odio nei confronti di Harris per ciò che ha fatto; c’è dolore profondo per la mancanza, e c’è soprattutto una riflessione sulla perdita accompagnata dalla ricerca del senso della vita di chi resta, di chi continua.
Sono pagine struggenti in cui però è lampante l’incomunicabilità del dolore. La gioia è maggiore se condivisa; ecco, il dolore probabilmente no. Non esiste modo per accedere e scomporre il dolore di una persona, soprattutto quello della perdita. Con le parole si possono fare tante cose, anche tenere in vita e fissare nella memoria collettiva le vite di chi non c’è più. Il salto prova a rendere comprensibile il dolore; nelle sue struggenti e rassegnate parole la Manguso riesce ad avere l’empatia del lettore. Sono però solo brevi momenti destinati a finire presto, perché per quanto possa essere evocativa la parola scritta sul foglio bianco, non lo sarà mai come un sorriso di una persona, la sua voce, un suo abbraccio.

lunedì 24 aprile 2017

Libro - Il senso della lotta di Nicola Ravera Rafele



Tommaso ha 37 anni e un contratto a tempo determinato al Corriere della Sera. È figlio di Michele Musso e Alice Rosato, terroristi delle Brigate rosse morti in un incidente d’auto a Parigi nel 1983. Tommaso è cresciuto con la sorella di Alice, Diana, che è riuscita a garantirgli una vita tranquilla, normale come quella della sua figlia naturale Cristina. Un giorno però, per una casualità, Tommaso scopre che Alice e Michele erano a Grenoble nel 1984. Da quel momento la sua vita si blocca, si ingolfa. Dove sta la verità?
Nicola Ravera Rafele è figlio di Mimmo Rafele e Lidia Ravera. Lui, classe ’47, è un regista e sceneggiatore che ha lavorato con Gianni Amelio e i fratelli Bertolucci;  lei, nata nel 1951, è la scrittrice (assieme a Marco Lombardo Radice) di Porci con le ali, affresco della generazione del Sessantotto. È fondamentale inquadrare il contesto in cui è nato ed è cresciuto Nicola Ravera Rafele. È una premessa necessaria perché il suo Il senso della lotta, contrapponendo passato e presente, cerca di rimettere in discussione l’intero decennio Settanta. Gli ideali, i personaggi e la società di quegli anni vengono ricostruiti dallo scrittore e soprattutto messi in discussione fin dal titolo. Qual è il senso della lotta? A che cosa ha portato la militanza, la collettività? Oltre alle bombe e ai morti, cosa hanno portato gli anni di piombo?
Nella ricerca della propria identità da parte di Tommaso, nell’investigazione che lo porterà alla verità sui suoi genitori, c’è anche la ricostruzione dell’identità di una generazione intera. Una generazione che alla fine degli anni Settanta è passata da una dimensione pubblica a una privata, si è smembrata, polverizzata. Tommaso è il figlio di questa generazione: Ravera Rafele non si occupa solo della ricostruzione dei fatti nel modo più realistico possibile, ma riesce a trasportare tutto nel presente. Il senso della lotta non è un romanzo storico, anzi, è attualissimo; è un puro e splendido esempio di come si possono mettere a confronto due generazioni. C’è quella sessantottina, rivoluzionaria e intrisa di impegno verso la collettività rappresentata da Michele e Alice, e c’è quella di Michele, uomo di oggi interessato a scoprire le proprie origini familiari (quindi esclusivamente private), più che a riscrivere la storia di un Paese che ancora nasconde centinaia di segreti.

domenica 23 aprile 2017

Top 7 - Sette romanzi sulla provincia americana



Per noi umili europei il sogno americano è fatto anche e soprattutto dalle luci scintillanti delle metropoli, dai grattacieli, dalla frenesia delle New York, Los Angeles, Las Vegas. Siamo stati contagiati dal cinema, dalla musica, dal bombardamento di prodotti pop provenienti da oltreoceano. Ecco, però l’America non è solo questo: non sono solo sfavillanti casinò, taxi gialli e locali alla moda. Uscendo dalle città, percorrendo chilometri e chilometri sulle Highway, sulle Interstate e sulle Route, si scopre la provincia americana. Una miriade di piccoli centri abitati da poche migliaia di persone raccolte attorno a una pompa di benzina e qualche negozietto collocato sulla Main Street. La vita scorre lenta nella provincia americana, senza scossoni e stravolgimenti. Eppure all’interno di questo macrocosmo, si è sviluppata una letteratura “rurale” capace di cogliere quello spirito e quegli umori che caratterizzano gli abitanti di queste zone. The Great American Novel, il grande romanzo americano spesso ha volto il proprio sguardo a queste aree del Paese in cui la vita scorre lenta, in cui la tradizione e il folklore vengono prima di tutto il resto, in cui una relazione umana viene prima del denaro.
È un genere affascinante che noi dell’Ignorante abbiamo voluto trattare. Scegliere 7 titoli da uno scaffale che ne contiene migliaia è stato davvero difficile, quasi stupido. Non ce la sentiamo di affermare che questi scelti sono i migliori. Sono solo una minuscola selezione.
7 – Ruggine americana di Philip Meyer. Isaac English ha vent’anni. Pur essendo un genio, per lui il college è solo un miraggio da quando ha tentato il suicidio. Lo ha salvato Billy Pope, ragazzo grande e grosso, ma non tanto sveglio. Siamo a Buell, Pennsylvania; il sogno americano arrugginisce assieme alle acciaierie abbandonate e alle rovine delle fabbriche. L’unica via possibile per i due è la fuga verso Ovest.
6 – Canto della pianura di Kent Haruf. Holt, Colorado. Tom Guthrie insegna storia al liceo e da solo si occupa dei due figli piccoli, mentre la moglie passa le sue giornate chiusa in casa. Victoria Roubideaux ha sedici anni e scopre di essere incinta. Quando la madre la caccia di casa, la ragazza chiede aiuto a un’insegnante della scuola, Maggie Jones, e la sua storia si lega a quella dei vecchi fratelli McPheron, che da sempre vivono in solitudine dedicandosi all’allevamento di mucche e giumente. I romanzi di Kent Haruf sono stati un piccolo caso editoriale in Italia; un successo limpido e puro, come i personaggi che abitano l’immaginaria Holt.
5 – America perduta di Bill Bryson. Bill Bryson ha percorso 22.500 chilometri per le strade dell’America minore, dentro il cuore delle piccole città, alla ricerca della città perfetta, fatta di viali alberati, steccati bianchi e gente cordiale. Un lungo viaggio partito da Des Moines, Iowa che ha toccato improbabili città come Winnemucca in Nevada o Tuscaloosa in Alabama.  L’America al completo filtrata dall’ironia, marchio di fabbrica dello scrittore.
4 – Le correzioni di Jonathan Franzen. Enid e Alfred Lambert, in una città del Midwest americano, trascorrono le giornate accumulando oggetti, ricordi, delusioni e frustrazioni del loro matrimonio: l'uno in preda ai sintomi di un Parkinson che non vuole curare, l'altra con il desiderio di radunare per un ultimo Natale i tre figli allevati secondo le regole e i valori dell'America del dopoguerra, attenti a correggere ogni deviazione dal classico. I figli però se ne sono andati sulla costa: Gary, dirigente di banca, vittima di una depressione strisciante e di una moglie infantile; Chip che ha perso il posto all'università per «comportamento sessuale scorretto»; infine Denise, chef di successo che secondo i genitori conduce una vita privata discutibile. Jonathan Franzen è una delle voci di punta della narrativa contemporanea. Le correzioni sfiora il capolavoro.
3 – Stoner di John Williams. William Stoner ha una vita che sembra essere assai piatta e desolata. Non si allontana mai per più di centocinquanta chilometri da Booneville, in Missouri, il piccolo paese rurale in cui è nato, mantiene lo stesso lavoro per tutta la vita, per quasi quarant’anni è infelicemente sposato alla stessa donna, ha sporadici contatti con l'amata figlia e per i suoi genitori è un estraneo, per sua ammissione ha soltanto due amici, uno dei quali morto in gioventù. Eppure, la vita di Stoner, nella sua assenza di scossoni e curve, risulta essere un piacevole viaggio all’interno dell’animo umano; un libro magico il cui segreto ancora non è stato svelato.
2 – Shotgun Lovesongs di Nickolas Butler. Henry, Lee, Kip e Ronny sono cresciuti insieme a Little Wing, una cittadina rurale del Wisconsin. Amici fin dall'infanzia, hanno poi preso strade diverse. Henry è rimasto nella fattoria di famiglia e ha sposato il suo primo amore, mentre gli altri se ne sono andati altrove in cerca di fortuna. Ronny è diventato una star del rodeo, Kip ha fatto i soldi in città e il musicista Lee ha trovato la fama ma ha avuto il cuore spezzato. Ora tutti e quattro sono tornati in paese per un matrimonio. Eccelso romanzo sull’amicizia che fa scontrare passato e presente, lealtà e ricchezza, successo e fedeltà.
1 – Jayber Crow di Wendell Berry. Per oltre trent'anni Jayber Crow è stato il barbiere di Port William, un piccolo centro agricolo del Kentucky. Tutti sono passati dal suo negozio, affidandogli, insieme ai capelli e alla barba, pensieri e speranze, sogni e delusioni. Ormai anziano, ci racconta le loro vicende, e attraverso di esse la propria stessa vita. Mentre sullo sfondo scorrono gli avvenimenti della Storia - dalla crisi del '29 alla seconda guerra mondiale, al Vietnam, agli anni '80 - le piccole storie degli abitanti di Port William si intrecciano costruendo una trama di forte verità umana. Wendell Berry è uno scrittore che ha rinunciato alla carriera universitaria per fare vivere in una fattoria e fare l’agricoltore. I suoi romanzi sono intrisi di quell’amore per la terra e per il prossimo che rendono Wendell Berry uno degli scrittori più ottimisti e profondi presenti sul panorama mondiale.

sabato 22 aprile 2017

Film - Paterson (2016) di Jim Jarmusch



Paterson, New Jersey. L’autista di autobus Paterson (Adam Driver), ogni mattina esce di casa per andare al lavoro e a fine giornata, sempre alla stessa ora, torna a casa dalla moglie Laura (Golshifteh Farahani) e dal loro cane che tutti i giorni porta a spasso.  La sera poi entra sempre nello stesso locale per bere sempre una birra e chiacchierare con il barista. La vita di Paterson è scandita da una solida e comunissima routine, una normale esistenza che gli dà ispirazione per la sua vera passione: la poesia.
Jim Jarmusch è un regista geniale. Non è certo un’affermazione avventata definire il regista coi basettoni uno degli autori più riconoscibili e particolari che il cinema americano di oggi offre. Paterson è un limpidissimo esempio di come la poesia, forma d’arte basata sull’accostamento di parole che rispettano determinate leggi metriche, sia il tema centrale di un film, prodotto che per definizione si basa invece soprattutto sull’immagine.
Ci sono centinaia di romanzi che raccontano le oneste vite di personaggi qualunque, di agricoltori, di operai, di commercianti le cui vite non subiscono mai scossoni. Ci sono il William Stoner di John Williams, il Frank Bascombe di Richard Ford e il Jayber Crow di Wendell Berry. L’impresa di Jarmusch è stata quella di aver portato una di queste storie in un film e di aver utilizzato la poesia come veicolo di interesse. È una traslazione che può apparire banale, ma che tiene in piedi tutto il film: i sette giorni della settimana di Paterson raccontati da Jarmusch iniziano tutti allo stesso modo, ma prendono tutti una direzione impercettibilmente diversa l’uno dall’altro. Il regista porta l’anafora, figura retorica che consiste nella ripetizione dell’inizio di un verso, dentro lo schermo, nell’immagine. Ogni giorno inizia allo stesso modo, ma procede in maniera impercettibilmente diversa, condizionato dai dialoghi con la gente, dalle conversazioni, dalla vita della città di Paterson che scorre. Ecco, il passaggio geniale: ecco come un film, può raccontare la profondità della vita di un semplice autista di autobus. La poesia si fa sussurro, voce fuori campo e scritta sullo schermo che accompagna Paterson (l’uomo e la città) nella sua vita, nei suoi incontri, nelle sue passeggiate e che si fa strumento perfetto per la creazione di una curiosità; una curiosità necessaria per dare colore al mondo e per formare quel disordine controllato che elimina la noia dalle nostre vite.

venerdì 21 aprile 2017

Film - Piuma (2016) di Roan Johnson



Periferia di Roma. Ferro e Cate hanno diciotto anni. Dovrebbero essere preoccupati per l’imminente esame di maturità, ma lei è incinta. L’inattesa gravidanza porta scompiglio nelle loro vite e in quella delle loro famiglie. I genitori di Ferro sono divisi: lui vorrebbe trasferirsi in Toscana, lei preferirebbe stare vicino al figlio per fare la nonna. Il padre di Cate invece non è assolutamente pronto per fare il nonno (e nemmeno il padre). I nove mesi di gravidanza porteranno rapidamente alla maturità (non solo scolastica) i giovani ragazzi.
Ancor prima di uscire nelle sale Piuma era già stato bollato come prodotto sbagliato; un’inconcludente commediola italiana dal tema trito e ritrito. L’annuncio della partecipazione del film diretto da Roan Johnson al Festival di Venezia aveva fatto storcere il naso ai distinti borghesi che a Venezia trovano sempre salottini pronti ad accoglierli. Non può esserci, si diceva, una commedia leggera (per di più italiana) in concorso al Festival.
Ecco, Piuma non è la banalissima commedia da film tv: Roan Johnson, regista e sceneggiatore, tratta in maniera leggera, ma assolutamente non superficialmente il tema della genitorialità. È uno stile piuttosto nuovo quello di Johnson. Il regista riesce a fondere uno stile con venature indie che a tratti ricorda Noah Baumbach e richiama vagamente il primo Wes Anderson, con la commedia italiana, fatta di coatti di periferia, di italiano vernacolare, di gag.
In 98 minuti, Piuma riesce a rappresentare tutte le sfaccettature che l’impegnativa tematica richiede, senza però copiare i predecessori (Juno su tutti): c’è il rapporto genitori-figli, c’è il tema del lavoro e della crisi; ci sono gli interrogativi sul futuro, i dubbi d’amore, l’incertezza delle amicizie. Piuma tocca tutto con la leggerezza suggerita dal nome e con una sensibilità rara per il nostro cinema. Ci troviamo di fronte a un film esportabile almeno in Europa; un raro caso in cui una nostra commedia non si limita ai confini di stato (Canton Ticino escluso), ma volge il proprio sguardo, con onesta ambizione, all’estero.