lunedì 13 marzo 2017

Libro - Sportswriter di Richard Ford



Frank Bascombe ha 38 anni e per campare fa il giornalista sportivo. Un venerdì Santo incontra la sua ex moglie X sulla tomba del loro primo figlio Ralph. Da questo piccolo rituale che ripete insieme alla ex moglie ogni anno dalla morte del ragazzo, Bascombe comincia a narrare la sua tranquilla e normalissima esistenza.
Frank Bascombe è il classico everyman americano. 38 anni, divorziato, un lavoro tranquillo e stabile, Frank vive in una villetta a Haddam, accogliente cittadina del New Jersey, lontano dal caos e dallo stress delle metropoli americane. Richard Ford riesce con estrema sensibilità a dare forma alla vita di un anonimo personaggio. Frank Bascombe non è un eroe: non ha fatto nulla per meritarsi questo titolo. È solo una persona che riflette sulla banalità della quotidianità e prova ad andare a fondo nelle relazioni con le persone, per lui troppo complicate. Non è nemmeno un antieroe, non è uno di quei personaggi martellati dal rimorso e in cerca di redenzione.
Frank Bascombe è semplicemente il simbolo di una sonnolenta classe media americana (ma potremmo anche dire occidentale), pilotata da un’indifferenza di fondo e da una superficialità di cui è perfettamente consapevole, ma a cui tuttavia non vuole porre rimedio. L’ambizione a una vita all’insegna dell’ordinario è il desiderio più grande che Frank lascia trasparire attraverso la sua ostinata introspezione, una filosofia di fondo che lo guida e lo porta a condurre una vita disimpegnata e defilata.
Sportswriter è a tratti un capolavoro: è un capolavoro per la sensibilità con cui riesce a sviscerare i rapporti umani. È un capolavoro perché Frank Bascombe è Richard Ford, simbolo e icona del disorientamento della middle class americana. Ford, la cui acutezza lo colloca tra i grandi della letteratura a stelle e strisce, mette a nudo il disorientamento e la rassegnazione della sua classe senza però scadere nel patetismo e nel vittimismo. È un filo sottile su cui Sportswriter, la cui azione è realmente scarna, riesce a mantenersi in perfetto equilibrio per le sue 400 pagine.

Film - Miles Ahead (2015) di Don Cheadle



Miles Davis è stato uno dei musicisti più influenti e innovativi del Novecento. Non è questo il luogo adatto a spiegare quale sia stata la sua importanza nello sviluppo del genere jazz e nella sua evoluzione in cool jazz, jazz-rock e hard bop. Quello che c’è da capire è che stiamo parlando di una figura oggettivamente geniale.
Bene, Miles Davis tra il 1944 e il 1991 ha pubblicato più di 50 album. Con i live la sua discografia supera le 100 pubblicazioni. Tra il 1975 e il 1980, però, Davis vive un periodo di appannamento. Si ritira dalle scene e smette di comporre musica, di esercitarsi e di suonare per il pubblico. Piomba in una situazione fatta di isolamento e di dipendenza dalla cocaina.
Miles Ahead, scritto, diretto e interpretato da Don Cheadle è ambientato alla fine di questo periodo di silenzio e si concentra su due giorni in cui Miles Davis viene avvicinato da un giornalista di Rolling Stone (Ewan McGregor) che, nel tentativo di ottenere uno scoop dal musicista, lo trascinerà in una miriade di guai.
L’idea di entrare in un punto preciso della vita di un’icona per tentare di raccontarne il prima e il dopo era rischiosa, e solo un grande regista, appoggiato da un ottimo sceneggiatore, avrebbe potuto ottenere un risultato almeno accettabile. Don Cheadle, alla sua prima prova dietro la macchina da presa, purtroppo fallisce l’ambizioso tentativo. Fallisce perché riduce la vita di Miles Davis a una serie di tragicomiche avventure degne di un poliziesco con Chris Rock; fallisce perché non riesce a costruire un collegamento tra la musica di Miles Davis e l’uomo. Todd Haynes, in Io non sono qui, aveva costruito sei Bob Dylan diversi per dare uno sguardo completo sulla persona e sull’opera; Clint Eastwood, in Bird, si è preso tre ore piene per raccontare la storia di Charlie Parker. Cheadle invece, vuoi per mancanza di fondi o di idee, riduce il suo Miles Ahead a 100 minuti in cui ad essere evidenziati sono solamente i lati bui di Davis: la tossicodipendenza, l’eterna lotta con la propria casa discografica, il difficile rapporto con la moglie Frances Taylor. Miles Ahead prova a dire tutto, ma alla fine non dice nulla e ha, come unico pregio, quello liberare il jazz dagli stereotipati locali fumosi e salotti borghesi che il cinema aveva reso luoghi di reclusione di un genere musicale che ha nella sua radice un senso di improvvisazione e furia espressiva. Doti che sono mancate al simpatico Don Cheadle.

domenica 12 marzo 2017

Top 7 - I migliori libri sul calcio



Il calcio, come lo sport in generale, ogni anno riesce a raccontarci storie mitiche, favole leggendarie scritte da persone comuni che, per le proprie imprese, acquistano lo status di “eroe”. Il calcio è uno dei più importanti aggregatori sociali, e attraverso i suoi valori, un mezzo straordinario per la divulgazione della cultura.
È uno sport che ha affascinato nel tempo centinaia di scrittori; la narrazione sportiva è diventata un vero e proprio genere letterario molto prima che Federico Buffa (noi ti ringraziamo per questo) la rendesse mainstream anche in Italia. La nostra è una classifica molto british: sei libri su sette da noi consigliati sono di scrittori britannici. D’altronde si sa, il calcio l’hanno inventato loro e forse per questo è giusto così:
7 – La mia vita rovinata dal Manchester United di Colin Shindler. Negli anni Sessanta il piccolo Colin vive una doppia emarginazione: è ebreo e soprattutto è innamorato della squadra più scarsa di Manchester, il Manchester City. Ma nel 1968 le cose sembrano cambiare: il City vince il campionato, laureandosi campione d’Inghilterra. La gioia però dura poco, perché una settimana dopo lo United di George Best strapazza il Benfica a Wembley e vince la Coppa dei Campioni. La mia vita rovinata dal Manchester United spiega in maniera eccellente cosa voglia dire vivere all’ombra di una squadra capace solo a vincere
6 – Fuori casa di John King. C’era un tempo in cui i tifosi inglesi venivano chiamati hooligans e facevano paura distruggendo stadi e quartieri. Poi le stragi dell’Heysel e di Hillsborough hanno obbligato il governo britannico a prendere provvedimenti seri per debellare il fenomeno. Gli hooligans però non sono morti, ma si risvegliano quando escono dal Regno Unito per seguire la nazionale dei Tre Leoni. Fuori casa racconta di una trasferta inglese nella tanto odiata Germania.
5 – Il mio anno preferito a cura di Nick Hornby. È una serie di 12 racconti di altrettanti autori che narrano la stagione calcistica che più li ha emozionati. Il mio anno preferito non parla di Real Madrid, Juventus e Bayern Monaco. Il calcio de Il mio anno preferito è più romantico e racconta le gioie e i dolori dell’anonimo Raith Rovers, dello sconosciuto St. Albans City, dell’Oxford, del Cambridge. Un libro che, senza alcun intento di protesta, si allontana anni luce dal calcio dei fantastiliardi di oggi.
4 – Il miracolo di Castel di Sangro di Joe McGinniss. Nel 1996 Castel di Sangro, comune di 6 mila abitanti abbarbicato sull’Appennino abruzzese, entra nella storia: la sua squadra di calcio conquista la promozione in serie B. La notizia arriva addirittura in America, dove un celebre reporter e saggista, Joe McGinniss, decide di voler seguire, per la stagione 1996/97, la squadra. Si trasferisce così a Castel di Sangro. Ma Joe però non parla italiano e a malapena conosce le regole del calcio. Il miracolo di Castel di Sangro è il reportage di quella incredibile annata conclusasi con una clamorosa salvezza.
3 – Fedeli alla tribù di John King. “Coventry è meno di un cazzo. Hanno una squadra di merda e dei tifosi di merda. Hitler ci aveva pigliato a raderla al suolo”. Inizia così lo sconvolgente romanzo di John King, scrittore che più di tutti ha saputo raccontare la mentalità hooligan. Con un linguaggio crudo e sboccato, King racconta una stagione dei tifosi del Chelsea, molto più attenti alle bevute e alle risse che ai risultati della loro squadra.
2 – Febbre a 90° di Nick Hornby. È un libro che non ha bisogno di tante presentazioni; c’è anche il film con il bravissimo Nick Hornby. Febbre a 90° è il racconto della vita dello scrittore scandita in ogni suo passaggio dai successi (pochi) e dalle delusioni (tante) della sua squadra del cuore, l’Arsenal.
1 – Il maledetto United di David Peace. Brian Clough, allenatore vincente con il Derby County, nel giugno del 1974 passa al Leeds United per sostituire l’amatissimo Don Revie, chiamato a guidare l’Inghilterra. L’avventura sulla panchina del Leeds dura 44 giorni, dopodiché Clough viene esonerato. David Peace, in altrettanti capitoli e con uno stile da romanzo noir racconta quel periodo e soprattutto l’acerrima rivalità tra Clough e Revie. Il maledetto United è un capolavoro di letteratura contemporanea tout court, non solo sportiva.

sabato 11 marzo 2017

Film - The Accountant (2016) di Gavin O'Connor



Christian Wolff (Ben Affleck) è un genio della matematica e dei numeri a cui da bambino hanno diagnosticato la sindrome di Asperger. Grazie alle sue doti, Christian, tiene la contabilità di alcune organizzazioni criminali e viene assoldato dalla Living Robotics su richiesta di una contabile che ha trovato dei buchi nei bilanci della società. Sulle sue tracce di Christian però c’è il Dipartimento del Tesoro, che lo conosce come “il Contabile”.
Il Contabile, genio autistico esperto pure nelle arti marziali e nell’uso delle armi, è una specie di supereroe interpretato egregiamente da Ben Affleck, la cui celeberrima inespressività per una volta risulta confacente al personaggio. Diretto da Gavin O’Connor, The Accountant è un intricato thriller ipercinetico che fonde (e confonde) azione, sparatorie e combattimenti alla matematica più inaccessibile per un pubblico generalista. È un film denso, zeppo di movimenti, azioni e dialoghi, una dura prova per il pubblico, ma anche per il regista che riesce nell’intento di regalare allo spettatore due ore abbondanti di intrattenimento e adrenalina.
Per carità, siamo nel territorio dell’action e quello che conta davvero sono le sparatorie, i morti e le botte: O’Connor si dimostra abile nel limitare l’uso della computer grafica e soprattutto nel limitare lo show nella sua accezione più trash; The Accountant è, da questo punto di vista, un film che si prende seriamente e già nelle prime sequenze si scrolla di dosso quel velo farsesco provocato da una sceneggiatura non altezza. Sì perché, lo screenplay di Bill Dubuque, per quanto ambizioso, dimostra tutti i suoi limiti nell’eccessiva complessità della trama, ma soprattutto nel tratteggio delle caratteristiche del Contabile stesso. Il suo autismo, più che perdita del contatto con la realtà e costruzione di una vita interiore, in The Accountant assomiglia molto a un superpotere che trasforma Christian Wolff in un eroe, capace di complicatissimi calcoli, ma anche di utilizzare armi e sgominare bande di criminali. È un difetto piuttosto grosso che comunque non impedisce allo spettatore di godersi una pellicola che poteva essere ottima, e che invece si limita a essere accettabile.

venerdì 10 marzo 2017

Film - La ragazza del treno (2016) di Tate taylor



In seguito al divorzio con il marito Tom, Rachel trova rifugio nell’alcol. Durante il suo girovagare senza meta, dal vagone di un treno, Rachel spia l’ex marito, ora felicemente sposato con Anna. È in queste occasioni che Rachel osserva i vicini di casa di Tom, i coniugi Megan e Scott, incarnazione della coppia perfetta e dell’amore vero. Un giorno però, Rachel scorge Megan in compagnia di un altro uomo e, identificando la fine del proprio matrimonio con il tradimento della donna, perde la testa. Quando però si riprende, Megan è scomparsa e Rachel non riesce a ricordare se è stata testimone oppure responsabile della sua sparizione.
Tate Taylor, mestierante di Hollywood, dirige La Ragazza del treno, trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Sally Hawkins, bestseller del 2015. Il film di Taylor non riesce a prendere le giuste distanze dal romanzo e anzi insiste su una didascalica e fastidiosa voce fuori campo che a tutti i costi vuole richiamare le pagine del libro della Hawkins. Non era facile, va detto, riuscire a rendere in immagini i densi pensieri e la psicologia dei personaggi. Se il romanzo aveva nei suoi punti di forza gli ottimi approfondimenti dei caratteri e il mantenimento della tensione costante, il film prova a rielaborare il thriller psicologico con analessi e prolessi, salti temporali in fin dei conti non necessari e non richiesti; si arrovella nel tentativo di trarre lo spettatore in inganno, di seminare dei dubbi sull’innocenza di Rachel, ma la detective story è scarica in partenza  e lo spettatore sbadiglia.
La ragazza del treno è un film che arriva tardi, non riesce a rielaborare i generi del crime e del thriller classico, e si salva solo per l’accortezza del regista, passando dall’ambientazione londinese del romanzo a quella newyorkese del film, di restituire atmosfere cupe che suggeriscono e in qualche modo coprono la bidimensionalità dei personaggi. Troppo poco; per il successo del romanzo e per l’aspettativa creatasi già nelle fasi di pre-produzione, La ragazza del treno forse meritava un regista più esperto e navigato, a metà fra David Fincher e Christopher Nolan.
E per fortuna che ha trovato in Emily Blunt il volto femminile perfetto  per rappresentare una donna distrutta dall’alcolismo, con la memoria a brandelli e un’autostima da ricostruire. Da ricostruire come la sceneggiatura, a metà fra il dramma sentimentale al femminile e la mystery story, incapace di creare tensione e suspense attorno all’identità dell’assassino.