giovedì 2 marzo 2017

Libro - Desperados di Joseph O'Connor



1985. Il Nicaragua è sconvolto da una feroce guerra civile. Frank Little, assieme alla ex moglie Eleanor è a Managua per riconoscere il cadavere del figlio Johnny. Ma all’obitorio si scopre che il cadavere non è quello del figlio. Inizia così una ricerca che porterà Frank e Eleanor, a bordo di un esotico e scassatissimo camper e in compagnia dei Desperados de Amor, la band in cui suonava Johnny, ad attraversare un Paese martoriato dagli eventi e dalle contraddizioni.
Ci sono delle caratteristiche che rendono sempre riconoscibile la penna di Joseph O’Connor e che ne determinano continuamente la cifra stilistica: l’amore per la musica, l’indagine sentimentale all’interno del nucleo famigliare, l’appartenenza al popolo irlandese.
Desperados, pur essendo ambientato totalmente in Nicaragua, vuole dichiarare al lettore la sua appartenenza all’Irlanda, nazione fatta di storia e folklore, ma anche di sangue e di guerra, tutti temi presenti in ogni romanzo di O’Connor. In uno scenario geografico e storico ben costruito e delineato, O’Connor manovra i suoi personaggi con la stessa sensibilità che caratterizzerà, qualche anno dopo, l’universo cinematografico di Wes Anderson. In Desperados, come spesso accade nei libri di O’Connor, non ci sono personaggi realmente cattivi e crudeli, ma nemmeno personaggi totalmente buoni e puri. È un microcosmo difettoso quello costruito dallo scrittore irlandese, in cui vivono e si muovono personaggi estremamente umani, resi al lettore soprattutto attraverso l’iperrealismo dei dialoghi costruiti dalla fine penna ( e dall’orecchio) dell’autore.
Manca una vera e propria riflessione sulla follia della guerra, sulla sofferenza di un Paese messo in ginocchio dal clima e dalle armi. Probabilmente sarebbe stato un capolavoro. Invece è “solamente” un ottimo romanzo, indagine e ricerca storica, fisica e interiore, di affetti, di amore, di vita.

mercoledì 1 marzo 2017

Film - La legge della notte (2016) di Ben Affleck



Joe Coughlin (Ben Affleck) è un piccolo criminale figlio del capo della polizia di Boston durante gli anni del proibizionismo. Inseritosi nella lotta fra italiani e irlandesi, Joe si innamora di Emma (Sienna Miller), la donna del boss, segnando la sua condanna a morte. Il padre, però, lo salva arrestandolo.
Scontata la pena, Joe, per conto del boss Pescatore (Remo Girone) si trasferisce a Tampa per il contrabbando di alcolici. A Tampa si scontrerà con il Ku Klux Klan, con il fanatismo religioso, con un nuovo amore e con il suo passato.
Ben Affleck, protagonista, regista e sceneggiatore di La legge della notte, adatta per lo schermo il romanzo omonimo di Dennis Lehane, scrittore già portato al cinema da Scorsese con Shutter Island e da Affleck stesso con Gone Baby Gone. In La legge della notte Affleck si misura con il gangster movie classico, strizzando l’occhio qua e là a maestri come Leone e Scorsese, non rinunciando però a sfumature da melodramma, vere stonature della pellicola. Se per molte sequenze e per molti stilemi La legge della notte si mantiene sui binari del noir classico condito da un hard boiled vagamente pulp, il film ha il difetto di voler cercare a tutti i costi la love story fra il suo protagonista, il solito inespressivo Affleck, di gran lunga meglio dietro la macchina da presa che davanti, e la bella Graciela interpretata da Zoe Saldana. La legge della notte si dimostra quindi essere un buon film che però arriva fuori tempo massimo, in un periodo di magra per il genere, non si dimostra ai livelli dei capolavori della categoria (The Departed – Il bene e il male di Scorsese, tanto per citarne uno fra i più recenti) e soprattutto non aggiunge nulla di nuovo a un genere a cui ormai è sempre difficile approcciarsi.
È un peccato perché la ricostruzione storica è impeccabile, il cast è un’azzeccato insieme di stelle, la fotografia e i costumi sono curatissimi: quello che manca probabilmente è proprio il Ben Affleck protagonista, non perfettamente calato nel ruolo del gangster, antieroe tormentato dai fantasmi interiori e incatenato alla sua incapacità di trasmettere sentimento, di permettere allo spettatore l’identificazione con il personaggio. Ben Affleck non è ritenuto alla pari di un Leonardo DiCaprio o di un Sean Penn, attori che il pubblico automaticamente richiama per un immediato paragone: Affleck non ha una filmografia corposa e di valore e alla fine lo spettaore finisce con l’accostarlo a Batman. E forse proprio per questo il film nelle sale americane è andato malissimo, causando perdite per 75 milioni di dollari, infangando la figura del povero Affleck. Che Comunque rimane, nonostante tutto un ottimo regista.

lunedì 27 febbraio 2017

Film - Scappo dalla città - La vita, l'amore e le vacche (1991) di Ron Underwood



Mitch (Billy Crystal), Phil (Daniel Stern) e Ed (Bruno Kirby) sono amici da sempre. Ormai sulla quarantina, i tre vivono un momento di crisi dovuta a un’incapacità di autorealizzazione che non riescono a superare. Dopo una pessima esperienza in Spagna, i tre cercano la svolta nelle loro vite decidendo di trascorrere due settimane nel selvaggio west per imparare a comportarsi come veri cowboys e gestire una mandria di mucche.
Scappo dalla città – La vita, l’amore e le vacche, diretto da Ron Underwood, è stato un grande successo di pubblico della stagione 1991, uno degli ultimi colpi di coda della commedia americana tipicamente anni Ottanta. Billy Crystal, nel pieno della sua carriera dopo il successo di Harry ti presento Sally, è uno dei tre protagonisti della pellicola che segue le vicende di tre amici senza voler evidenziare a tutti i costi l’importanza dell’amicizia, tema sicuramente presente, ma che rimane sullo sfondo.
Scappo dalla città vuole essere, prima di tutto, un’indagine, seppur stereotipata, sull’uomo perennemente immaturo e costantemente alla scoperta di se stesso. In uno scenario bucolico lontanissimo dalla frenesia della metropoli, i protagonisti riscoprono come può essere semplice la vita umana, l’importanza delle relazioni sociali e dei valori. Il moderno west proposto dal film di Underwood, rientrando pienamente nei canoni della commedia, strizza l’occhio a pietre miliari del cinema western americano, citando qua e là Balla coi lupi, Fiume rosso e Sentieri selvaggi, e trova nella figura di Jack Palance, il vecchio gestore del ranch Cattle Drive, il ponte di collegamento tra un passato hollywoodiano bagnato di nostalgia e un presente cinematografico, industria dell’entertainment regolata dalle semplici leggi del mercato.
In un pastiche in cui Underwood, pur senza uno stile personale, si diverte a mescolare i generi classici americani, il pubblico scopre il piacere della vita agreste, un’alternativa alla routine domestica che negli anni successivi il mercato ha saputo trasformare in nuova frontiera turistica. Da stile di vita alternativo, il viaggio come mezzo spirituale per comprendere se stessi si è di fatto industrializzato, trasformando il Cattle Drive (ma volendo vedere anche l’isoletta greca mostrata da Salvatores in Mediterraneo), in cattedrali per turisti che non scappano da nulla, ma cercano solo un banale relax.

sabato 25 febbraio 2017

Film - The Lennon Report (2016) di Jeremy Profe



8 dicembre 1980. Il giornalista Alan Weiss, a causa di un incidente in moto, viene trasportato al Roosevelt Hospital di New York. In ospedale alcuni medici stanno cercando di salvare la vita a un uomo a cui hanno sparato. Quell’uomo è John Lennon.
Testimone della confusione e della morte del cantante, Alan cercherà, dal lettino su cui giace per l’incidente, a svolgere il proprio lavoro di giornalista.
The Lennon Report, film diretto da Jeremy Profe, in poche scene e filmati di repertorio riesce a far calare lo spettatore nella New York e nell’America del 1980. In maniera piuttosto didascalica vengono mostrati e citati le icone, gli eventi e la cultura di quel tempo, dalla politica al costume, dalla cronaca allo sport.
È un’introduzione rapida e insipida, quella di The Lennon Report, film ambizioso che però paga il basso budget con cui è stato realizzato, ma soprattutto crolla sulla sceneggiatura e sulla scrittura dei personaggi, approssimativa e appena accennata.
Come Parkland, film del 2013 che raccontava gli attimi seguenti la morte di JFK, The Lennon Report vuole narrare gli attimi appena successivi al decesso di John Lennon. Ma come Parkland a suo tempo, anche The Lennon Report sbaglia nella scelta di voler raccontare la vicenda escludendo qualsiasi intento documentaristico, unica via che poteva essere presa per costruire attorno al film un po’ di interesse.
John Lennon, mai mostrato in volto nel film e ridotto a un ammasso di materia insanguinata su cui i medici prestano soccorso, esiste in The Lennon Report solo come nome e cognome attorno a cui orbitano poliziotti, medici, infermieri, giornalisti e la povera Yoko Ono. Anche l’assassino, Mark Chapman, rimane innominato, personaggio misterioso che lo spettatore di The Lennon Report non ha modo di conoscere.
Se The Killing of John Lennon del 2006 e Chapter 27 del 2007 cercavano di trattare gli ultimi giorni di vita di Lennon, The Lennon Report non fa nulla, ma prova a evidenziare l’eroismo dei dottori che però non riescono a salvargli la vita, e tocca solo superficialmente la questione di coscienza che può toccare un giornalista in bilico fra rispetto della privacy e della persona e diritto di cronaca che si trasforma in un dovere verso il pubblico.
The Lennon Report è il pessimo ricordo di un’icona, un uomo che va ricordato soprattutto per la sua musica e per le sue canzoni, tralasciate da The Lennon Report e sostituite con una colonna sonora da serie tv.

giovedì 23 febbraio 2017

Libro - Matterhorn di Karl Marlantes



È il 1969 e gli Stati Uniti sono in guerra in Vietnam. Il tenente dei marines Waino Mellas riceve il suo primo incarico al confine tra Vietnam e Laos. In un ambiente ostile, fatto di paludi, sanguisughe e piogge monsoniche, Mellas e i suoi uomini lottano ogni giorno contro il nemico invisibile, le tigri e la fame, cercando di non farsi travolgere dalla rabbia e dalla follia della guerra.
Matterhorn, nome di una base strategica su un’altura vicino al confine con il Laos, è anche il titolo di questo romanzo, scritto da Karl Marlantes e pubblicato nel 2010 dopo un travaglio di quasi quarant’anni.
Così come Il nudo e il morto di Norman Mailer, Matterhorn si distingue per non essere il frutto di accurate ricerche e anni di interviste: Marlantes nel 1969, anno in cui la vicenda è ambientata, ha 24 anni. Da quasi un anno è in Vietnam a combattere, strappato alla sua promettente carriera lavorativa. In Vietnam vede di tutto: la morte, il sangue; tutta la pazzia che l’uomo può raggiungere.
Rientrato decide che la miglior terapia per ritornare con il corpo, ma soprattutto con la mente alla vita reale è scrivere e far sapere a tutti ciò che ha visto e ciò che ha fatto. Matterhorn è il voluminoso romanzo di più di 700 pagine, frutto del suo lavoro.
Matterhorn è un romanzo tremendamente crudo; un’analisi profonda della psiche umana sconvolta dalla costante paura di morire, che attraversa tutti i personaggi del libro. In un ambiente tanto ostile la convivenza fra i militari, tutti tremendamente giovani, è resa ancora più difficile dallo scoppio dell’odio razziale all’interno delle truppe. L’aria di cambiamento che gli Stati Uniti stava vivendo all’interno dei propri confini con icone come Martin Luther King e Malcolm X e organizzazioni come le Pantere Nere, viene traslata in Vietnam, dove però bianchi e neri sono costretti a una convivenza forzata che spesso sfocia in violenza. Con assoluta sincerità (e forse proprio per questo) il romanzo di Marlantes, che è stato rifiutato da svariati editori per quasi 40 anni, porta alla luce il fenomeno del fragging, una situazione di intolleranza interna all’esercito che sfociava in azioni contro elementi delle proprie truppe.
Sono pagine di vibrante realismo, quelle scritte da Marlantes, capaci di raccontare la facilità con cui si può perdere la vita e l’insensatezza del conflitto in Vietnam (ma come anche in Afghanistan, Iraq…). Non c’è spazio per l’esaltazione dell’esercito, per la bandiera americana, per l’amore della patria. La tipica retorica che la letteratura e la cinematografia di guerra hanno cercato di inglobare è assente in questa bruciante testimonianza; probabilmente una delle migliori per capire davvero cosa significa mollare la quotidianità e imbracciare un fucile.