mercoledì 22 febbraio 2017

Film - Lettere da Berlino (2016) di Vincent Péerez



Germania nazista, 1940. Otto (Brendan Gleeson) e Anna Quangel (Emma Thompson) vengono informati con una lettera della Wermacht, della morte del loro unico figlio sul fronte francese.
Addolorati per la perdita e schifati dalla guerra e dal regime del führer, i due iniziano una resistenza silenziosa fatta di cartoline anonime antinaziste lasciate in diversi luoghi di Berlino con la speranza di risvegliare la coscienza del popolo tedesco. Sulle sue tracce, però, si mette un duro ispettore della Gestapo, Escherich (Daniel Brühl).
Lettere da Berlino, diretto dall’abile mestierante Vincent Pérez, dimostra come il cinema europeo rimanga, com’è giusto che sia, sensibile ai drammi bellici che hanno sconvolto il continente nel Novecento. Lettere da Berlino è un buon esempio di come si possono mostrare i crimini della Germania nazista senza per forza toccare la pazzia dell’Olocausto: il film vuole omaggiare e ricordare gli oppositori interni al regime, piccole fette di popolazione mai schieratesi con Hitler e per questo perseguitate, imprigionate e barbaramente uccise.
Lettere da Berlino si distingue dalle numerose altre pellicole che trattano il nazismo, per i minimi livelli di violenza mostrata, di crudeltà, di sangue. Perez ha la sincerità di mostrare la vita quotidiana della Berlino dell’epoca, le dure condizioni di vita e di lavoro della working class, e soprattutto quella terribile sproporzione fra i pochi contrari al regime e il resto della popolazione. La solitudine di Otto e Anna restituisce allo spettatore una Germania quasi totalmente allineata alle follie del suo condottiero e paralizzata dall’ansia di spionaggio, da quella paura di essere scoperti per non essersi adeguati al partito.
La delazione, molto diffusa nella Germania di quegli anni e già trattata in film come Jakob il bugiardo del 1998, è il tema centrale della pellicola e fa capire come, favorevole o contrario al regime, il popolo tedesco in quegli anni abbia rinunciato a essere padrone del proprio destino, lasciandosi volontariamente annichilire da un controllo soffocante e insensato. Ecco allora che, in un ambiente del genere, Otto e Anna diventano il simbolo di una banale, ma per loro irraggiungibile, libertà.

martedì 21 febbraio 2017

Film - Tumbledown (2015) di Sean Mewshaw



In un piccolo villaggio tra i boschi del Maine, vive Hannah (Rebecca Hall), giovane vedova del cantautore folk Hunter Miles, morto in un incidente sulla montagna di Tumbledown. La donna, incapace di superare il dolore, vive schiacciata da un lavoro precario, immersa in una relazionale senza sentimento, in compagnia di due cani e pochissimi amici. A portare un cambiamento nella sua vita, però, arriva un professore universitario, Andrew (Jason Sudeikis), deciso a scrivere una biografia del folk singer per preservarne la memoria nel tempo. Rivivendo la musica e la vita del marito, Hannah riuscirà ad affrontare il dolore e  a riprendere in mano la propria vita.
L’elaborazione del lutto, il dolore della perdita e la sofferenza di chi resta sono sentimenti facili, archetipi che la Hollywood contemporanea si diverte a sfruttare per emozionare il suo pubblico, in costante ricerca del giusto pathos. Tumbledown, prima regia di Sean Mewshaw, è esattamente questo: una commedia amara in cui i protagonisti sono due anime in fuga, capaci di incontrarsi e sostenersi. Hannah sta scappando dalla vita, rinchiudendosi nei ricordi della casa condivisa col marito, nel suo studio di registrazione; Andrew, invece, fugge dal caos di New York, alla ricerca di un cambiamento che la metropoli non gli può dare.
Il villaggio innevato e circondato dai boschi e dalle montagne, diventa così il luogo dello scontro e dell’incontro fra Hannah e Andrew, un luogo poetico e magico per rivivere il personaggio di Hunter Miles, folk singer tormentato le cui canzoni sono state scritte e cantate dal songwriter Damien Jurado, e per elaborarne la perdita, riuscire a seppellirlo senza dimenticarlo e provare ad andare avanti.
Il freddo inverno del Maine, ma che potrebbe essere anche quello di Manchester-by-the-Sea in Massachusetts, rigido, nevoso e glaciale, grazie all’ottima fotografia di Seamus Tierney, si mischia alla voce di Hunter Miles, una voce delicata, disperata, simile a quella di un Elliott Smith o a un Bon Iver.  
Tumbledown è un bellissimo esempio di come, ancora una volta, la musica si dimostra strumento straordinario per rappresentare emozioni, quali il dolore per la perdita e la sofferenza di chi resta, incapace di dimenticare.

domenica 19 febbraio 2017

Film - Manchester by the Sea (2016) di Kenneth Lonergan



Lee Chandler (Casey Affleck) lavora come tuttofare per una manciata di condomini poco lontano da Boston. È un uomo solitario, che conduce una vita riservata fatta di pochissimi rapporti umani. Un giorno, Lee riceve la notizia della morte di suo fratello Joe, a Manchester, Massachusetts, suo paese natale. Una volta recatosi sul posto per seppellire il fratello, Lee scopre che è stato nominato tutore del figlio di Joe, il sedicenne Patrick (Lucas Hedges). Il ritorno a Manchester porterà Lee ad affrontare l’ex moglie Randi (Michelle Williams), il nipote Patrick e soprattutto un oscuro e tragico passato.
Manchester by the Sea è un dramma famigliare che vede nel suo protagonista Lee un immenso Casey Affleck, capace con i propri silenzi, i propri movimenti e la propria postura di trasmettere il dolore di un uomo e di un padre.
Kenneth Lonergan, alla terza pellicola da regista in 16 anni, si diverte a giocare con i flashback, alternando presente e passato, primavera e inverno. In un New England glaciale, gelido e innevato, scopriamo il dramma vissuto da Lee, un tempo amorevole padre di famiglia, colpevole della morte dei figli in un incendio che distrugge l’abitazione.
Con Manchester by the Sea, Lonergan ha saputo trattare un tema stereotipato e già noto, fuoriuscendo dai canoni classici che l’elaborazione del dolore e del lutto impongono. Manchester by the Sea è una poesia invernale in cui i silenzi e i comportamenti del suo protagonista si allontanano da quel didascalismo e da quella pedanteria propria delle pellicole mediocri.
Lee Chandler, dopo aver ucciso (seppur accidentalmente) i figli, e distrutto la propria famiglia, ha l’opportunità di ritornare nel paese, un piccolo villaggio, della tragedia e di ritrovarsi nel ruolo di padre-tutore. È una seconda possibilità; quella che ogni persona, prima o poi, ricerca non per chiedere perdono o cicatrizzare le ferite interiori, ma semplicemente per ritrovare una ragione di vita, una possibilità per riprovarci in punta di piedi, in silenzio e senza sorrisi, ma col cuore caldo per affrontare i gelidi inverni di Manchester-by-the-Sea, Massachusetts.

venerdì 17 febbraio 2017

Film - Il diritto di contare (2016) di Theodore Melfi



1961. Le afroamericane Katherine Johnson (Taraji P. Henson), Dorothy Vaughan (Ocatvia Spencer) e Mary Jackson (Janelle Monáe) lavorano per la NASA. Nonostante là difficoltà di lavorare in una nazione ampiamente razzista, in un ambiente prettamente maschile, i loro calcoli e la loro dedizione alla causa, porteranno l’astronauta John Glenn a risucire nell’impresa di realizzare un’intera orbita attorno alla Terra.
Le Hidden Figures del titolo originale, da noi tradotto barbaramente con Il diritto di contare, sono proprio le tre donne protagoniste della pellicola, la seconda dopo St. Vincent del 2014 per il regista Theodore Melfi. Hidden figures, figure nascoste e sconosciute lo sono state per troppo tempo all’interno della NASA che solo recentemente ha permesso all’opinione pubblica, grazie a una serie di premi, medaglie e mea culpa, un giusto riconoscimento al merito di queste tre geniali donne.
Siamo nella Virginia del 1961. Lo Stato non ha ancora abolito la segregazione razziale: neri e bianchi non possono vivere assieme; sugli autobus, nei locali pubblici, sul posto di lavoro bianchi e neri devono sempre essere separati; la NASA non fa eccezione.
In un’epoca a loro così ostile, Katherine, Dorothy e Mary hanno avuto il doppio merito di lottare e distinguersi in un luogo fortemente razzista e soprattutto in un ambiente decisamente maschile e maschilista.
Il diritto di contare è la vera storia della battaglia per i diritti civili che si coniuga a quell’emancipazione femminile voluta e ottenuta dalle tre protagoniste. Una storia talmente bella per come la realtà l’ha voluta scrivere, che il regista Melfi saggiamente ha deciso di eliminare ogni tipo di retorica o di eccesso di moralità. Melfi mostra semplicemente le difficoltà quotidiane vissute dalle donne (ma anche dagli uomini) di colore di uno stato americano dei primi anni Sessanta, lasciando al pubblico la libertà di riflessione.
Siamo davanti all’ennesima pellicola, l’ennesimo esempio di come Hollywood si diverta a prendere a schiaffi le facce più becere della storia contemporanea americana, cercando di creare una connessione temporale passato-presente per permettere anche allo spettatore più ingenuo, di riflettere, imparare e desiderare una realtà più equa, che non faccia distinzioni per il colore della pelle, per etnia, per cultura, ma che premi sempre e comunque il merito della persona, uomo o donna che sia.

giovedì 16 febbraio 2017

Libro - Dove si va da qui di Simone Marcuzzi



Gabriele e Nadia, fidanzati dai tempi dell’università, convivono in un appartamento della provincia del nord-est italiano. Lui è un ingegnere meccanico, manager in una importante multinazionale con diverse sedi all’estero, lei una veterinaria in una clinica veterinaria, sommersa dal lavoro e dai debiti. Gabriele e Nadia sono una coppia stabile, felice, ma comunque alla ricerca di una svolta, di quel cambiamento che permetta loro di evitare lunghi silenzi davanti alla tv alla sera rientrati dai rispettivi lavori.
Con Vorrei star fermo mentre il mondo va, pubblicato da Mondadori nel 2010, Simone Marcuzzi, classe 1981, analizzava il passaggio di un diciottenne all’età adulta. Questo Dove si va da qui pare essere il suo naturale sviluppo, in cui i protagonisti più anziani e già realizzati professionalmente sono costretti dalla vita a prendere delle decisioni senza possibilità di fuga.
Marcuzzi è bravissimo a rappresentare il contemporaneo quotidiano, fatto di viaggi in automobile, di colazioni consumate fugacemente, di cene scaldate, di telefonate, di pranzi in famiglia. L’architettura della coppia è costruita con distacco dallo scrittore friulano; un lucido distacco che pone Gabriele e Nadia esattamente sullo stesso piano, osservati esattamente dalla stessa distanza. Sono persone adulte e mature quelle che si muovono in Dove si va da qui, ma anche vulnerabili e soprattutto umane, capaci di amare, ma incapaci di dimostrarlo in una provincia italiana sconvolta dalla crisi economica che spazza via la complicità della coppia, la sicurezza e soprattutto trasforma quella convivenza basata su una solida routine in una lotta alla sopravvivenza. Una battaglia per rimanere a galla quando il cambiamento è necessario, ma tutto è immobile; quando l’amore c’è, ma non è sufficiente.