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venerdì 21 aprile 2017

Film - Piuma (2016) di Roan Johnson



Periferia di Roma. Ferro e Cate hanno diciotto anni. Dovrebbero essere preoccupati per l’imminente esame di maturità, ma lei è incinta. L’inattesa gravidanza porta scompiglio nelle loro vite e in quella delle loro famiglie. I genitori di Ferro sono divisi: lui vorrebbe trasferirsi in Toscana, lei preferirebbe stare vicino al figlio per fare la nonna. Il padre di Cate invece non è assolutamente pronto per fare il nonno (e nemmeno il padre). I nove mesi di gravidanza porteranno rapidamente alla maturità (non solo scolastica) i giovani ragazzi.
Ancor prima di uscire nelle sale Piuma era già stato bollato come prodotto sbagliato; un’inconcludente commediola italiana dal tema trito e ritrito. L’annuncio della partecipazione del film diretto da Roan Johnson al Festival di Venezia aveva fatto storcere il naso ai distinti borghesi che a Venezia trovano sempre salottini pronti ad accoglierli. Non può esserci, si diceva, una commedia leggera (per di più italiana) in concorso al Festival.
Ecco, Piuma non è la banalissima commedia da film tv: Roan Johnson, regista e sceneggiatore, tratta in maniera leggera, ma assolutamente non superficialmente il tema della genitorialità. È uno stile piuttosto nuovo quello di Johnson. Il regista riesce a fondere uno stile con venature indie che a tratti ricorda Noah Baumbach e richiama vagamente il primo Wes Anderson, con la commedia italiana, fatta di coatti di periferia, di italiano vernacolare, di gag.
In 98 minuti, Piuma riesce a rappresentare tutte le sfaccettature che l’impegnativa tematica richiede, senza però copiare i predecessori (Juno su tutti): c’è il rapporto genitori-figli, c’è il tema del lavoro e della crisi; ci sono gli interrogativi sul futuro, i dubbi d’amore, l’incertezza delle amicizie. Piuma tocca tutto con la leggerezza suggerita dal nome e con una sensibilità rara per il nostro cinema. Ci troviamo di fronte a un film esportabile almeno in Europa; un raro caso in cui una nostra commedia non si limita ai confini di stato (Canton Ticino escluso), ma volge il proprio sguardo, con onesta ambizione, all’estero.

sabato 15 aprile 2017

Film - The Survivalist (2015) di Stephen Fingleton



L’esaurimento delle risorse energetiche ha portato l’umanità a un passo dall’estinzione. In questo scenario apocalittico, un sopravvissuto vive isolato in un bosco, coltivando un piccolo orticello che difende dai predoni . Un giorno però la vita del survivalist è sconvolta dall’arrivo di due donne, madre e figlia, stremate dalla fame e dalla stanchezza. L’uomo dovrà scegliere se aiutare le due donne stravolgendo il suo ferreo regolamento.
The Survivalist è l’opera prima del nord irlandese Stephen Fingleton, interessante re-invenzione del genere post-apocalittico che riduce gli scenari distopici di metropoli distrutte e deserte, e popolazioni decimate a una semplice infografica iniziale e a un bosco in cui si sviluppa l’intera vicenda. L’impalcatura minimalista del film, novità all’interno di un filone che fatica a rinnovarsi, ha però il difetto di contagiare anche la sceneggiatura, non all’altezza delle idee, ottime, del regista. I dialoghi sono ridotti all’osso e anche l’azione, in diversi momenti della pellicola è piuttosto claudicante.
Lo stupore per l’impostazione iniziale che indirizza il film svanisce presto e alla fine a prevalere è una certa noia. L’apocalisse e il destino della società, associati alla superiorità della natura, sono temi soltanto sussurrati e sostituiti dalla lotta quotidiana alla sopravvivenza, un crudo realismo fatto di silenzi, fatica e poco altro. C’è una messa in scena della regressione più totale dell’essere umano a bestia, animale feroce pronto a uccidere pur di sopravvivere.
The Survivalist vince come esperimento: il regista riesce a portare a termine un film fantascientifico post-apocalittico senza l’uso di alcun effetto speciale e con un budget minimo. Impresa questa non da poco. Mancano però i giusti guizzi in una sceneggiatura troppo piatta, le giuste impennate che incollano lo spettatore alla poltrona. Risulta alla fine difficile giudicare positivamente una pellicola così rigorosa, scarna e minimalista; un film che purtroppo non riesce a raggiungere una piena sufficienza.

venerdì 14 aprile 2017

Film - Remember (2015) di Atom Egoyan



Zev Guttmann (Christopher Plummer) è un anziano ebreo affetto da demenza senile che trascorre le sue giornate in una clinica privata in compagnia di Max (Martin Landau), amico fedele con cui ha condiviso la terribile esperienza dei campi di concentramento. Max, costretto sulla sedia rotelle, convince Zev di vendicare loro e le loro famiglie trucidate a Auschwitz rintracciando il loro assassino, da tempo nascosto negli Stati Uniti sotto falso nome. Nonostante la malattia, Zev parte in un viaggio fra America e Canada che lo porterà davanti al suo aguzzino, ma anche a una sconvolgente verità.
Atom Egoyan è un regista che da tempo sforna pellicole che si collocano sulle orbite più esterne dell’industria mainstream, ma capaci di incatenarsi fra loro per l’insistenza con cui certi temi vengono proposti. I concetti cari al regista, quasi sempre sceneggiatore dei suoi film, sono quelli della conservazione della memoria, della ricerca delle radici familiari, e dell’importanza dell’identità all’interno di un collettivo.
Con Remember, Egoyan si conferma vero autore capace negli anni di confermarsi coerente con se stesso portando avanti un ben definito discorso filmico. Remember è un film denso, pieno zeppo di significati e tematiche. C’è davvero un po’ di tutto: c’è l’Olocausto, trattato da lontano, al giorno d’oggi; c’è la dignità dell’uomo anziano, che vede scomparire lentamente la salute fisica e mentale; e c’è poi soprattutto il puzzle game costruito dal regista, un gioco di incastri nolaniani che ingannano e divertono lo spettatore. C’è un raffinato discorso sulla memoria e la sua alterazione come adattamento richiesto dalla coscienza per lavare via un passato putrido, da dimenticare. Remember è un film storico che si muove come un road movie e termina come un thriller psicologico. Una grande prova registica e, ancor di più, attoriale con un immenso Christopher Plummer, capace con il suo volto segnato e gli occhi gonfi, di vestire i panni di un uomo dal terribile passato e da un presente intermittente, con una mente ormai in balia del tempo che inesorabilmente corre e scappa.

giovedì 13 aprile 2017

Film - Lion - La strada verso casa (2016) di Garth Davis



Saroo è un bambino indiano di 5 anni. Un giorno si addormenta su un treno e si risveglia nella caotica Calcutta. Trovato dalle autorità, Saroo non riesce a spiegare la sua provenienza. Finisce così prima in un istituto e poi in Tasmania, adottato da una coppia australiana. Più di vent’anni dopo, ormai cresciuto e perfettamente inserito nella società australiana, Saroo inizia a covare il desiderio di poter rivedere la sua famiglia naturale. Grazie a Google Earth comincia così delle complicate ricerche, nella speranza di rintracciare il suo villaggio e quindi la sua famiglia.
È pratica piuttosto comune a Hollywood, quella di riassumere una nazione intera nelle facce e nei corpi di pochissimi attori selezionati: Javier Bardem e Penelope Cruz rappresentano la Spagna, Jean Reno la Francia; se serve un tedesco il primo a essere chiamato è Daniel Bruhl. Ecco, il rappresentante dell’India è Dev Patel, protagonista (o quasi) di Lion – La strada verso casa, primo lungometraggio di Garth Davis.
È un ottimo film questo Lion. Pur raccontando una storia il cui finale è intuibile fin dai primi minuti, riesce a fuggire da quella retorica che sporca sempre film di questo tipo. C’è una cura nei dettagli che eleva Lion a un livello più alto: c’è una fotografia curatissima che restituisce squarci di India di crudele bellezza. C’è una colonna sonora sontuosa, potente che si fa portatrice di significato, che mette pathos e spinge al climax. Lion potrebbe apparire come il classico film da premi, da statuette e tappeti rossi. La storia di Saroo, incredibilmente vera, non richiedeva alcun adattamento in fase di scrittura: c’era il rischio di esagerare, di scadere nel patetico. Ed è qui che Lion diventa un ottimo film: non si prolunga eccessivamente sul suo finale scontato e risaputo, ma spinge invece nella costruzione iniziale dei personaggi, calcando la mano più sull’inizio della vicenda con Saroo bambino (interpretato da Sunny Pawar) che sull’ossessiva ricerca della seconda parte. Se negli anni abbiamo visto scadenti biopic e drammoni strappalacrime che puntavano solo al sensazionalismo, Lion è la dimostrazione che si può fare ottimo cinema partendo da una vicenda (comunque vera) che pone i sentimenti davanti a tutto.

lunedì 10 aprile 2017

Film - A spasso con Bob (2016) di Roger Spottiswoode



James Bowen (Luke Treadaway) è un senzatetto che si guadagna da vivere suonando per le strade di Londra. È un tossicodipendente che nutre la voglia di cambiare vita e in questo si lascia aiutare da Val (Joanne Froggatt), operatore di supporto che riesce a sistemarlo in una casa popolare di Tottenham. E proprio nel suo appartamento, una sera James trova un gatto rosso. Non riuscendo a trovare il proprietario dell’animale, James comincia a prendersi cura del gatto (ribattezzato Bob). La strana paternità aiuterà James a mettersi il passato alle spalle.
È un brutto difetto del nostro cinema quello di tradurre malamente in italiano i titoli originali delle produzioni estere. Era successo per The Eternal Sunshine of the Spotless Mind, trasformato barbaramente in Se mi lasci ti cancello; è accaduto anche per A Street Cat Named Bob, traslato con un A spasso con Bob che suggerisce tante cose, tutte piuttosto leggere, spensierate e forse demenziali. Ecco, niente di più sbagliato.
Il film di Roger Spottiswoode è la trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo scritto da James Bowen, vero ex-eroinomane capace di uscire dalla dipendenza dalle droghe e trasformare la sua vita. A spasso con Bob è sicuramente un film che cerca e tocca nel modo giusto corde piuttosto delicate. Riesce nell’intento non banale di mostrare gli effetti collaterali dell’abuso di droghe. Spottiswoode non si sofferma a mostrare i danni sul corpo umano, comunque osservabili durante il film; preferisce piuttosto evidenziare il degrado, la decadenza, la povertà e l’esclusione sociale che condanna chi finisce nel tunnel della dipendenza. Soprattutto nei primi minuti del film le condizioni di vita dei senzatetto sono mostrate con un realismo piuttosto crudo, senza alcuno sconto.
Il secondo obiettivo centrato dal film è quello di mostrare in maniera chiara e lineare il duro processo di guarigione; una guarigione che passa da infiniti colloqui con operatori di supporto, dall’assunzione controllata di metadone, dalla fiducia delle poche persone che ancora non hanno voltato le spalle, e, nel caso di Bowen, da un simpatico gatto rosso il cui punto di vista è sottolineato da un uso sapiente del point of view. A spasso con Bob è un film purtroppo passato in sordina nel nostro paese, ma che dovrebbe essere utilizzato in ambienti educativi. È un film in cui alla fin vincono tutti e a trionfare sono i buoni sentimenti. James e Bob avranno il loro lieto fine, dimostrando che esistono sempre le seconde possibilità.