venerdì 5 maggio 2017

Film - Guardians (2017) di Sarik Andreasyan



Durante la Guerra Fredda, il governo russo diede vita al progetto Patriot, una squadra speciale composta da superuomini provenienti dalle diverse repubbliche dell’Unione Sovietica. Alla fine della guerra, i membri del team hanno dovuto iniziare a vivere in latitanza nascondendo la propria identità. Quasi trent’anni dopo però, la Russia si trova di fronte a una grossa minaccia e solo i super eroi del vecchio progetto Patriot sono in grado si salvare il Paese.
Oggigiorno, il genere cinematografico che va per la maggiore, sia per numero di film prodotti, sia per risultati al botteghino è quello dedicato ai supereroi di derivazione fumettistica. I progetti a lungo termine di Marvel e Dc Comics hanno conquistato le sale di tutto il mondo, contagiando anche le filmografie e le industrie nazionali. Il bel Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti, è un perfetto esempio di adattamento di un genere straniero al mercato del suo Paese, al suo territorio e alla sua cultura. La Tor Bella Monaca del film colpisce lo spettatore italiano alla pari (se non di più) dei sobborghi di New York di Spider-Man. Guardians (il cui titolo originale è il più esotico Zashchitniki) è un film di supereroi russo, diretto da Sarik Andreasyan, regista già noto negli Stati Uniti per aver diretto American Heist nel 2014, film con Adrien Brody e Hayden Christensen.
Mentre Jeeg Robot si allontanava dai blockbuster americani con l’intenzione di conferire una corposa dose di italianità a ciò che mostrava e raccontava, Guardians cerca in tutti i modi di imitare e ricalcare il cinema della Marvel. Il pubblico occidentale, che al cinema ha sempre visto la Guerra Fredda in modo unilaterale (i cattivi sono sempre i russi) con Guardians poteva scoprire l’altro lato della medaglia. Invece, il film di Andreasyan non prova nemmeno a stravolgere il passato, a fornire un’altra chiave di lettura, un altro risvolto. In sostanza, cultura storia russa non vengono toccate, vengono saltate a piè pari. Il regista punta tutto sugli effetti speciali e sul rispetto degli stilemi del genere: c’è una prima fase in cui vengono mostrati i poteri dei vari protagonisti, una fase in cui entra in scena il cattivo, il combattimento finale. Guardians tecnicamente si dimostra un film corretto, ma fallisce proprio nella storia che racconta; una vicenda banalissima che annoia lo spettatore abituato ormai a ben altro. L’errore di non distaccarsi dai kolossal americani è imperdonabile. Il film finisce per ricordare, e non poco, un b-movie in stile Asylum, una pellicola adatta a fanatici del trash e a una triste distribuzione direct-to-video. Peccato.

domenica 30 aprile 2017

Top 7 - I migliori road movie



Il road movie è un film il cui svolgimento avviene attraverso un viaggio che può essere in automobile, a piedi, in pullman, in camper, ecc.
Il road movie nasce ovviamente in America, figlio di romanzi come Sulla strada di Kerouac e Furore di John Steinbeck. Il mito del viaggio come mezzo di esplorazione interiore e esteriore nasce proprio negli Stati Uniti, che poi, come per molti altri rami e prodotti della cultura pop, senza esitazioni lo hanno esportato un po’ in tutto il mondo. Il road movie più celebre, che però noi abbiamo escluso dalla top 7, è Easy Rider, film manifesto per un’intera generazione.
Il road movie nel tempo si è sviluppato, e da semplice filone è diventato genere vero e proprio soprattutto per il numero di film a tema prodotti. Come sempre selezionarne solo sette non è stato facile. Anzi, è stato un vero e proprio gioco al massacro.
7 – Into the Wild – Nelle terre selvagge (2007) di Sean Penn. Tratto dall’omonimo libro di Jon Krakauer, Into the Wild racconta la vera storia di Christopher McCandless, che tra il 1990 e il 1992 vagabondò per gli Stati Uniti alla ricerca della libertà assoluta, trovando però la morte nei boschi dell’Alaska. Into the Wild è un film toccante, impeccabile per i paesaggi, la fotografia e la colonna di Eddie Vedder.
6 – Nebraska (2013) di Alexander Payne. Woody Grant è un vecchio padre di famiglia alcolizzato che crede di aver vinto un milione di dollari grazie a un concorso. Vive in Montana, ma il premio va ritirato in Nebraska; decide così di mettersi in viaggio. Nel tentativo di dissuaderlo, il figlio finirà per andare con lui. Le commedie di Alexander Payne hanno sempre un fondo di tristezza che in Nebraska è rispecchiato dal bianco e nero del film e dai lunghi silenzi. Bellissimo.
5 – Little Miss Sunshine (2006) di Jonathan e Valerie Faris. La stramba famiglia Hoover vive a Albuquerque, in New Mexico. Il padre Richard tiene conferenze deserte sui segreti per raggiungere il successo, la madre Sheryl è una donna indaffarata e disponibile che spera nel successo del marito. Il figlio Frank ha tentato il suicidio e ha fatto il voto del silenzio che scioglierà solo se entrerà nell’accademia aeronautica, mentre la figlia Olive è una bambina di sette anni il cui sogno è partecipare a Miss America. Infine c’è nonno Edwin, vecchio con problemi di droga e nostalgico dei suoi anni di sregolatezza. A bordo di un Volkswagen T2, l’eccentrica famiglia raggiungerà la California per accompagnare la piccola Olive a un concorso di bellezza. Ovviamente tra un milioni di guai.
4 – In viaggio con Pippo (1995) di Kevin Lima. Alla fine dell’anno scolastico, Pippo ha deciso di partire per andare a pescare, portandosi dietro il figlio adolescente Max, che in realtà lo disprezza e lo segue malvolentieri. Tra le intenzioni del papà ci sarebbe quella di avvicinarsi al figliolo, vivendo “una grande vacanza da ricordare”. Max, però, nella testa a solo la popstar Powerline e la dolce Roxanne, che poco prima della sua partenza gli aveva concesso un appuntamento. Come potrà rimediare il giovane Max? In viaggio con Pippo è un capolavoro d’animazione. Un film immortale per grandi e piccini.
3 – National Lampoon’s Vacation (1983) di Harold Ramis. Lo strampalato Clark Grsiwold decide di portare la famiglia al parco dei divertimenti di Walley World, nel sud della California. A bordo di una Wagon Queen Family Truckster, un’improbabile giardinetta, la famiglia parte a Chicago. Il viaggio sarà però pieno di imprevisti. National Lampoon’s Vacation è il film che ha aperto la saga della famiglia Grsiwold capitata dal mitologico Chevy Chase. Pura comicità anni Ottanta per questo cult abbastanza sconosciuto qui in Italia.
2 – Tre uomini e una gamba (1997) di Aldo, Giovanni e Giacomo. Non poteva mancare. Più di Marrakesh Express o Il sorpasso, il road movie italiano per eccellenza è quello del trio comico. Una serie di gag leggendarie. Probabilmente l’abbiamo visto tutti almeno cento volte e ogni volta abbiamo riso come fosse la prima. Film mitologico.
1 – Una storia vera (1999) di David Lynch. Una storia vera si basa su un fatto realmente accaduto e racconta la storia di Alvin Straight, un contadino dell'Iowa che nel 1994, a 73 anni di età, intraprese un lungo viaggio a bordo di un trattorino tosaerba per andare a trovare il fratello reduce da un infarto. Straight coprì in 6 settimane la distanza di 240 miglia (386 chilometri circa), viaggiando a 5 miglia all'ora (8 km/h). Alvin Straight è interpretato da Richard Farnsworth, all’epoca malato di cancro e visibilmente sofferente. Farnsworth per sfuggire alla malattia, si suicidò pochi mesi dopo l’uscita del film. Una storia vera è un film anomalo nella filmografia di David Lynch. È comunque un film da 10 e lode, triste, ma con un fondo di speranza.

sabato 29 aprile 2017

Film Gold - La grande truffa (2016) di Stephen Gaghan



Kenny Wells (Matthew McConaughey) è un uomo che da sempre cerca di trovare la via per il successo. Grazie alla sua perseveranza, Kenny riesce ad avvicinare il geologo Michael Acosta (Edgar Ramirez) e a convincerlo della presenza dell’oro nel sottosuolo della giungla indonesiana. I due iniziano a scavare e sotto terra troveranno il metallo prezioso, ma anche una serie di guai.
Gold – La grande truffa è un film intrinsecamente americano. La corsa all’oro, infatti è, al pari della conquista del west, uno dei miti fondativi della cultura popolare a stelle e strisce. Parlando di corsa all’oro in campo cinematografico il pensiero non può non andare a La febbre dell’oro capolavoro del 1925 di Charlie Chaplin. A quasi un secolo di distanza il film di Chaplin, grazie alle sue gag, continua a essere film godibilissimo e immortale. E se La febbre dell’oro vive ancora grazie al suo protagonista, Gold sta in piedi grazie a Matthew McConaughey, protagonista del film in grado di calamitare l’attenzione dello spettatore per l’intera durata. In sovrappeso e con una calvizie in stato avanzato, l’attore texano dimostra di confermare quella sua volontà di prendere parte solo a progetti stimolanti e impegnativi. Da Dallas Buyer Club (il film che gli è valso il premio Oscar) a oggi, infatti, McConaughey ha lavorato solo in ruoli tutt’altro che semplici dando prova di eccezionale duttilità e flessibilità. Il suo Kenny Wells di Gold è la rappresentazione dell’everyman americano povero e testardo, che non si arrende mai e che alla fine trova la tanto cercata ricchezza (pagandone poi le conseguenze). Kenny Wells, che a tratti potrebbe assomigliare al Jordan Belfort di The Wall of Wall Street, è soprattutto l’incarnazione del American Dream che ciclicamente Hollywood cerca di proporre al pubblico. Gold, ambientato negli anni Ottanta e ispirato (lontanamente s’intende) allo scandalo minerario Bre-X del 1993 è l’ennesima messa in scena del self-made man, dell’uomo costruitosi con le proprie mani e costretto a scontrarsi con mille avversità, in un mercato economico impazzito e corrotto in un decennio folle. Gold cerca di ricostruire quel periodo storico con la leggerezza del caper movie e con la precisione di un biopic. Collocandosi in una zona limbo, sospeso fra il cinema di intrattenimento e quello di ricostruzione storica come mezzo di riflessione sul presente, Gold risulta un film piacevole, ricco e ipnotico; un po’ come la recitazione di McConaughey.

venerdì 28 aprile 2017

Film - Violet & Daisy (2011) di Geoffrey Fletcher



Le adolescenti Violet (Alexi Bledel) e Daisy (Saoirse Ronan) sono killer professioniste. La vita delle giovani donne cambia quando viene assegnato loro un bersaglio all’apparenza facile da eliminare, il signor Michael (James Gandolfini). La missione, infatti,  si rivelerà ricca di complicazioni.
Violet & Daisy è l’opera prima di Geoffrey Fletcher, sceneggiatore e produttore della pellicola, oltre che regista. Risulta difficile collocare Violet & Daisy in una tassonomia di generi cinematografici. Ci troviamo al confine fra la commedia, il film d’azione e il crime movie; insomma siamo di fronte a un film che s’ispira a Tarantino (quello di Jackie Brown, tanto per capirci), non disdegna il Guy Ritchie degli esordi (Lock & Stock e The Snatch), e per rigore formale e sofisticatezza ricorda a tratti i fratelli Coen.
In questo voler a tutti i costi imitare, omaggiare e ricordare i suoi predecessori, Violet & Daisy si dichiara in maniera piuttosto evidente come un ambizioso tentativo del regista Fletcher. Un tentativo che però riesce solamente in parte: se da un punto di vista tecnico e formale il film è ottimo e risulta godibile e originale, il plot si dimostra al di sotto delle aspettative e non riesce mai a scaldare lo spettatore. Manca un intreccio vero e proprio che riesca a fare da collante ai dialoghi grotteschi e surreali scritti dal regista. Fletcher prova a mettere tanta carne al fuoco, a partire dalla fotografia e dai costumi quasi fumettosi. È assente però un reale spessore psicologico dei personaggi e un giusto finale, che risulta inconcludente e che lascia lo spettatore con diversi interrogativi.
Violet & Daisy, che in Italia non ha mai trovato distribuzione, si colloca sicuramente in maniera involontaria, in quella selva oscura costituita dai wannabees, quelle pellicole che aspirano a essere qualcosa di più grande di quello che sono. La pellicola di Fletcher infatti assomiglia a troppi prodotti già visti e non riesce mai a raggiungere una vera e propria indipendenza. Siamo di fronte, insomma, a un altro film che non regge il confronto con i maestri (il sommo Tarantino citato prima) e che si accartoccia su se stesso scivolando velocemente nel dimenticatoio.

mercoledì 26 aprile 2017

Libro - Il salto. Elegia per un amico di Sarah Manguso



Il 23 luglio 2008, a New York, Harris J. Wulfson si getta sotto un treno della metro. Harris componeva musica e amava le donne, aveva un lavoro, un amore e una vita piena, a tratti felice. Harris però soffriva: la felicità si alternava a momenti di pazzia, di psicosi. Ed è proprio dopo uno di questi momenti di buio che Harris fugge dall'ospedale dove è ricoverato e si lancia sotto un treno della metro. Per Sarah Manguso la scomparsa di Harris è la perdita di un amico, il miglior amico. L'autrice, però, non vuole ricostruire le circostanze del suicidio e neppure scrivere la sua biografia. Il salto è una sorta di memoir, ma soprattutto uno sfogo: un componimento toccante e profondo su cosa vuol dire perdere una persona e convivere con la sua assenza. Il salto è una serie di flash, di brevissimi pensieri, aneddoti, riflessioni su chi è stato Harris, su chi è stato per gli altri, sul significato e le conseguenze delle sue azioni.
È incredibile come nello stesso tempo ci affezioniamo a Harris e ci disinteressiamo della sua vita; Il salto è, come dice il sottotitolo, un’elegia per un amico, improntato però a motivi di confessione autobiografica. Sarah Manguso in questo centinaio di pagine si apre completamente al lettore, si spoglia e racconta attimi privatissimi della sua vita. La scrittrice si dimostra, per alcuni trascorsi, molto vicina a Harris e proprio per questo riesce con lucidità e distacco a trattare il tema del suicidio. Nelle sue parole non c’è rabbia o odio nei confronti di Harris per ciò che ha fatto; c’è dolore profondo per la mancanza, e c’è soprattutto una riflessione sulla perdita accompagnata dalla ricerca del senso della vita di chi resta, di chi continua.
Sono pagine struggenti in cui però è lampante l’incomunicabilità del dolore. La gioia è maggiore se condivisa; ecco, il dolore probabilmente no. Non esiste modo per accedere e scomporre il dolore di una persona, soprattutto quello della perdita. Con le parole si possono fare tante cose, anche tenere in vita e fissare nella memoria collettiva le vite di chi non c’è più. Il salto prova a rendere comprensibile il dolore; nelle sue struggenti e rassegnate parole la Manguso riesce ad avere l’empatia del lettore. Sono però solo brevi momenti destinati a finire presto, perché per quanto possa essere evocativa la parola scritta sul foglio bianco, non lo sarà mai come un sorriso di una persona, la sua voce, un suo abbraccio.