sabato 22 aprile 2017

Film - Paterson (2016) di Jim Jarmusch



Paterson, New Jersey. L’autista di autobus Paterson (Adam Driver), ogni mattina esce di casa per andare al lavoro e a fine giornata, sempre alla stessa ora, torna a casa dalla moglie Laura (Golshifteh Farahani) e dal loro cane che tutti i giorni porta a spasso.  La sera poi entra sempre nello stesso locale per bere sempre una birra e chiacchierare con il barista. La vita di Paterson è scandita da una solida e comunissima routine, una normale esistenza che gli dà ispirazione per la sua vera passione: la poesia.
Jim Jarmusch è un regista geniale. Non è certo un’affermazione avventata definire il regista coi basettoni uno degli autori più riconoscibili e particolari che il cinema americano di oggi offre. Paterson è un limpidissimo esempio di come la poesia, forma d’arte basata sull’accostamento di parole che rispettano determinate leggi metriche, sia il tema centrale di un film, prodotto che per definizione si basa invece soprattutto sull’immagine.
Ci sono centinaia di romanzi che raccontano le oneste vite di personaggi qualunque, di agricoltori, di operai, di commercianti le cui vite non subiscono mai scossoni. Ci sono il William Stoner di John Williams, il Frank Bascombe di Richard Ford e il Jayber Crow di Wendell Berry. L’impresa di Jarmusch è stata quella di aver portato una di queste storie in un film e di aver utilizzato la poesia come veicolo di interesse. È una traslazione che può apparire banale, ma che tiene in piedi tutto il film: i sette giorni della settimana di Paterson raccontati da Jarmusch iniziano tutti allo stesso modo, ma prendono tutti una direzione impercettibilmente diversa l’uno dall’altro. Il regista porta l’anafora, figura retorica che consiste nella ripetizione dell’inizio di un verso, dentro lo schermo, nell’immagine. Ogni giorno inizia allo stesso modo, ma procede in maniera impercettibilmente diversa, condizionato dai dialoghi con la gente, dalle conversazioni, dalla vita della città di Paterson che scorre. Ecco, il passaggio geniale: ecco come un film, può raccontare la profondità della vita di un semplice autista di autobus. La poesia si fa sussurro, voce fuori campo e scritta sullo schermo che accompagna Paterson (l’uomo e la città) nella sua vita, nei suoi incontri, nelle sue passeggiate e che si fa strumento perfetto per la creazione di una curiosità; una curiosità necessaria per dare colore al mondo e per formare quel disordine controllato che elimina la noia dalle nostre vite.

venerdì 21 aprile 2017

Film - Piuma (2016) di Roan Johnson



Periferia di Roma. Ferro e Cate hanno diciotto anni. Dovrebbero essere preoccupati per l’imminente esame di maturità, ma lei è incinta. L’inattesa gravidanza porta scompiglio nelle loro vite e in quella delle loro famiglie. I genitori di Ferro sono divisi: lui vorrebbe trasferirsi in Toscana, lei preferirebbe stare vicino al figlio per fare la nonna. Il padre di Cate invece non è assolutamente pronto per fare il nonno (e nemmeno il padre). I nove mesi di gravidanza porteranno rapidamente alla maturità (non solo scolastica) i giovani ragazzi.
Ancor prima di uscire nelle sale Piuma era già stato bollato come prodotto sbagliato; un’inconcludente commediola italiana dal tema trito e ritrito. L’annuncio della partecipazione del film diretto da Roan Johnson al Festival di Venezia aveva fatto storcere il naso ai distinti borghesi che a Venezia trovano sempre salottini pronti ad accoglierli. Non può esserci, si diceva, una commedia leggera (per di più italiana) in concorso al Festival.
Ecco, Piuma non è la banalissima commedia da film tv: Roan Johnson, regista e sceneggiatore, tratta in maniera leggera, ma assolutamente non superficialmente il tema della genitorialità. È uno stile piuttosto nuovo quello di Johnson. Il regista riesce a fondere uno stile con venature indie che a tratti ricorda Noah Baumbach e richiama vagamente il primo Wes Anderson, con la commedia italiana, fatta di coatti di periferia, di italiano vernacolare, di gag.
In 98 minuti, Piuma riesce a rappresentare tutte le sfaccettature che l’impegnativa tematica richiede, senza però copiare i predecessori (Juno su tutti): c’è il rapporto genitori-figli, c’è il tema del lavoro e della crisi; ci sono gli interrogativi sul futuro, i dubbi d’amore, l’incertezza delle amicizie. Piuma tocca tutto con la leggerezza suggerita dal nome e con una sensibilità rara per il nostro cinema. Ci troviamo di fronte a un film esportabile almeno in Europa; un raro caso in cui una nostra commedia non si limita ai confini di stato (Canton Ticino escluso), ma volge il proprio sguardo, con onesta ambizione, all’estero.

martedì 18 aprile 2017

Libro - Una stella di nome Henry di Roddy Doyle



Henry Smart nasce nella Dublino di inizio Novecento. Scappato di casa assieme al fratello Victor, Henry vagabonda tra i quartieri più poveri e malfamati di Dublino e vive in prima persona la storia irlandese: dalla Rivolta di Pasqua del 1916, ai sindacalisti del Sinn Féin, fino alla guerra di indipendenza del 1920-21, Hnery avrà il modo di incontrare personaggi come James Connolly e Michael Collins.
Una stella di nome Henry è il primo capitolo di una trilogia che lo scrittore irlandese Roddy Doyle ha dedicato alla storia del suo Paese. Come Joseph O’Connor e Colum McCann, anche Doyle dimostra di possedere quell’attaccamento alla patria tipico degli scrittori irlandesi. In Italia, ad esempio, al giorno d’oggi non esistono scrittori popolari attaccati alla nostra storia e alla nostra bandiera. E probabilmente per questo motivo Una stella di nome Henry non è un romanzo facile, tutt’altro. Ora, non è questo il luogo per lezioni di storia contemporanea. Diciamo solo che è consigliabile, prima della lettura di Una stella di nome Henry, una ripassata wikipediana sulla storia irlandese per riprendere (o per approcciare per la prima volta) i fatti narrati da Doyle e evitare quindi di perdersi il senso del romanzo. La struttura è classica e molto usata: il racconto della vita di un personaggio di fantasia all’interno di un contesto storico ben definito è l’espediente utilizzato alla perfezione dallo scrittore irlandese.
Rimane il dubbio sul senso di pubblicare un libro come questo in Italia. Probabilmente l’obiettivo era quello di sfruttare il nome dello scrittore, amato da adulti e bambini. In ogni caso pubblicare un libro di questo tipo nel nostro paese è stato rischioso. Rischioso perché il lettore è chiamato a un compito impegnativo: è costretto a prepararsi sull’argomento se vuole evitare quel naturale spaesamento che si incontra in letture di questo tipo.
Ma quindi Una stella di nome Henry è un buon libro? . È difficile per uno scrittore confermarsi ad alti livelli in eterno. Soprattutto è difficile sfornare capolavori in sequenza come stava facendo Roddy Doyle. La trilogia di Barrytown  (diventata da poco una tetralogia) è un qualcosa di magico, di raro. Una stella di nome Henry invece è un libro sufficiente che però non scalda mai il cuore. Ed è un peccato perché Roddy Doyle è uno di quei pochi che è in grado di farlo.

domenica 16 aprile 2017

Top 7 - I migliori film d'azione tra anni Ottanta e Novanta



Il costante sviluppo della tecnologia ha cambiato, nel corso degli anni e dei decenni il modo di fare cinema. Il flusso continuo di nuovi effetti speciali ha permesso al cinema di viaggiare nel tempo e nello spazio, di creare nuovi mostri e soprattutto di esplorare ciò che comunemente definiamo fantastico. Non serve certo un colto cinefilo per accorgersi della differenza tra un Metropolis di Fritz Lang (datato 1927) e un qualsiasi blockbuster della Hollywood di oggi.
Ecco, noi dell’Ignorante però ormai da diverso tempo abbiamo cominciato a rifiutare questo uso scriteriato dell’effettistica in un genere a noi tanto caro: l’action. L’action è il genere che meglio va a braccetto con l’appellativo tutto italiano di americanata, espressione nata proprio per definire quelle pellicole (solitamente, ma non per forza statunitensi) che si distinguono per una sorta di coattezza, di clamorosità in bilico fra il trash e il kitsch. Per intenderci Vin Diesel che salta dai ponti con le auto nella saga di Fast & Furious è coatto; Bruce Willis che distrugge taxi e tir a New York in Die Hard 3 non lo è. Quello che differenzia i due casi è proprio l’uso degli effetti speciali: un vero abuso nel primo caso; un utilizzo misurato e corretto nel secondo.
Ed è per questo motivo che questa settimana abbiamo voluto tracciare una linea di separazione tra l’action vero, bello e godibile e quello più burino e tamarro. Abbiamo raccolto i sette (mai come in questo caso la scelta è stata tanto ardua) film d’azione simbolo degli anni Ottanta e Novanta, decenni d’oro per il genere.
7 – Air Force One (1997). Harrison Ford è il presidente degli Stati Uniti. Durante un volo viene preso in ostaggio sull’Air Force One da Gary Oldman. Ford, però, è anche un ex berretto verde (o qualcosa di simile), e non si lascerà piegare dai terroristi. Siamo qualche spanna sopra i recenti Attacco al potere  e White House Down – Sotto assedio.
6 – Face/Off  - Due facce di un assassino (1997). Sean Archer e Castor Troy sono un agente dell’FBI e un terrorista che da tempo giocano a rincorrersi e inseguirsi. A seguito di un intervento di chirurgia plastica all’avanguardia i due si scambiano le facce e assumono così uno l’identità dell’altro. Alla regia c’è John Woo, un maestro. I due protagonisti sono John Travolta e Nicolas Cage. È una pioggia di proiettili.
5 – Rambo 2 – La vendetta (1985). Ora, la saga di John Rambo è sacra. Abbiamo scelto il secondo film perché il primo di azione pura ha veramente poco. È piuttosto un dramma intenso sui reduci del Vietnam, un film che ancora oggi forse è sottovalutato. Nel secondo capitolo invece, l’unica cosa veramente intensa è la mascella di Stallone. Cult assoluto.
4 – Speed (1994). Trama semplice. Su un bus c’è una bomba innescata che esploderà se la velocità del mezzo scenderà al di sotto delle 50 miglia orarie. L’incaricato per sventare il pericolo è Keanu Reeves. Negli anni Novanta bastava poco per tirare fuori film con i controcazzi.
3 – L’ultimo boy scout (1991). Bruce Willis è un investigatore privato che si trova a indagare su un caso di omicidio all’interno del mondo del football. Ad aiutarlo c’è l’ex giocatore Damon Wayans. Oltre che essere un omaggio al noir degli anni Quaranta e Cinquanta, L’ultimo boy scout è un condensato di auto distrutte, esplosioni e inseguimenti. Alla regia c’è Tony Scott, non esattamente uno qualunque.
2 – Arma letale (1987). La saga di Arma letale rasenta la perfezione. Intendiamoci, abbiamo scelto solo il primo dei quattro capitoli perché altrimenti la top 7 sarebbe stata un inutile duopolio. Buddy movie, azione, colonne sonore, dialoghi e scene iconiche. è tutto maledettamente perfetto. Cioè, in quale altra saga avete visto una bomba sotto la tazza del gabinetto?
1 – Die Hard (1988). Stesso discorso fatto per Arma Letale. La saga di Die Hard, per noi dell’Ignorante è composta da tre film. Arma letale e Die Hard avrebbero occupato tutte e sette le posizioni della graduatoria; non ci sembrava giusto. Scegliamo il primo perché in fondo è quello che preferiamo; perché la canotta di Bruce Willis ce la sogniamo ancora la notte; perché tutti almeno una volta nella vita abbiamo desiderato di strisciare nei condotti dell’aria con un mitra in mano.

sabato 15 aprile 2017

Film - The Survivalist (2015) di Stephen Fingleton



L’esaurimento delle risorse energetiche ha portato l’umanità a un passo dall’estinzione. In questo scenario apocalittico, un sopravvissuto vive isolato in un bosco, coltivando un piccolo orticello che difende dai predoni . Un giorno però la vita del survivalist è sconvolta dall’arrivo di due donne, madre e figlia, stremate dalla fame e dalla stanchezza. L’uomo dovrà scegliere se aiutare le due donne stravolgendo il suo ferreo regolamento.
The Survivalist è l’opera prima del nord irlandese Stephen Fingleton, interessante re-invenzione del genere post-apocalittico che riduce gli scenari distopici di metropoli distrutte e deserte, e popolazioni decimate a una semplice infografica iniziale e a un bosco in cui si sviluppa l’intera vicenda. L’impalcatura minimalista del film, novità all’interno di un filone che fatica a rinnovarsi, ha però il difetto di contagiare anche la sceneggiatura, non all’altezza delle idee, ottime, del regista. I dialoghi sono ridotti all’osso e anche l’azione, in diversi momenti della pellicola è piuttosto claudicante.
Lo stupore per l’impostazione iniziale che indirizza il film svanisce presto e alla fine a prevalere è una certa noia. L’apocalisse e il destino della società, associati alla superiorità della natura, sono temi soltanto sussurrati e sostituiti dalla lotta quotidiana alla sopravvivenza, un crudo realismo fatto di silenzi, fatica e poco altro. C’è una messa in scena della regressione più totale dell’essere umano a bestia, animale feroce pronto a uccidere pur di sopravvivere.
The Survivalist vince come esperimento: il regista riesce a portare a termine un film fantascientifico post-apocalittico senza l’uso di alcun effetto speciale e con un budget minimo. Impresa questa non da poco. Mancano però i giusti guizzi in una sceneggiatura troppo piatta, le giuste impennate che incollano lo spettatore alla poltrona. Risulta alla fine difficile giudicare positivamente una pellicola così rigorosa, scarna e minimalista; un film che purtroppo non riesce a raggiungere una piena sufficienza.