venerdì 7 aprile 2017

Film - La festa prima delle feste (2016) di Josh Gordon e Will Speck

Una dirigente senza scrupoli (Jennifer Aniston) decide di chiudere una filiale di una compagnia informatica mal gestita dal fratello (T.J. Miller). Questi, con l’aiuto di alcuni colleghi, decide di organizzare una clamorosa festa di Natale nel tentativo di far colpo su un potenziale cliente e chiudere così una trattativa che salverebbe i posti di lavoro. Ma ovviamente nulla andrà come previsto.
La festa prima delle feste, regia di Josh Gordon e Will Speck, è l’emblema dello stato di crisi che sta vivendo la commedia americana. Un genere che non riesce a rinnovarsi e a rilanciarsi, continuando a proporre le solite situazioni e le solite facce. La festa prima delle feste non sarebbe nemmeno un bruttissimo prodotto, ma rimane comunque un film che si inizia a dimenticare quando ancora stanno scorrendo i titoli di coda.
L’ambientazione natalizia è il mero pretesto per inserire il film all’interno del classico christmas movie. È uno specchietto per le allodole: di natalizio il film non ha proprio nulla, ed è piuttosto un banale party movie spostatosi dagli ambienti collegiali all’interno di un’azienda informatica. E già qui crolla il castello di carte: La festa prima delle feste si aggiunge in cima alla pila di film demenziali che sfruttano il tema di una festa come pretesto per ricercare l’eccesso più sfrenato. Porky’s, Animal House, Facciamola Finita e, perché no, The Wolf of Wall Street sono tutte pellicole che La Festa prima delle feste cerca di imitare. È un continuo ricalcare che francamente ha stufato e ormai risulta indigesto. Siamo abbondantemente fuori tempo massimo e anche il cast risulta noioso. Jennifer Aniston e Jason Bateman recitano insieme per la quinta volta e in questo film ristabiliscono la gerarchia di Come ammazzare il capo e vivere felici: lei il boss, lui il dipendente infelice. Mentre T. J. Miller in pratica riprende il ruolo che interpreta nella serie Silicon Valley (quella sì, una serie azzeccata), il resto del cast si impegna senza successo nell’uscire da personaggi altamente stereotipati: c’è il nerd impacciato, l’infoiato, l’orientale di turno, la suora mancata. È una schiera di elementi triti e ritriti che annoiano per la loro prevedibilità e banalità.
  

giovedì 6 aprile 2017

Libro - Bull Mountain di Brian Panowich



Il proibizionismo entrò in vigore negli Stati Uniti nel 1919. Dopo 14 anni venne abolito. È probabilmente la legge che più di ogni altra ha lasciato strascichi nella cultura, nel costume e nella società americana. Basti pensare che nella contea di Moore, in Tennessee, dove viene prodotto il celebre whiskey Jack Daniel’s, la vendita di alcolici è tutt’ora vietata. L’assenza di venditori autorizzati di alcolici in periodo di proibizionismo a contribuito alla nascita della figura del moonshiner, entità mitologica oggi solo appartenente al folklore americano, ma un tempo vero e proprio distillatore clandestino capace di arricchirsi con il contrabbando di alcolici.
Con alle spalle una simile storia, il cinema, la letteratura e la musica (The Moonshiner è un canto folk tradizionale) made in USA hanno spesso trattato il tema della produzione e della vendita illegale di alcolici. Il recentissimo film La legge della notte di Ben Affleck e il romanzo La contea più fradicia del mondo di Matt Bondurant  sono due esempi che dimostrano questo trend.
È esattamente in questo contesto che si inserisce Bull Mountain di Brian Panowich, scritto nel 2015 e appena portato in Italia da NN Editore. Bull Mountain è la storia di due fratelli, Clayton e Halford Burroughs, appartenenti a una famiglia di fuorilegge che con la produzione e il traffico di whiskey di mais, di marijuana e di metamfetamine ha acquisito il controllo totale di Bull Mountain, in Georgia.
Ma mentre Halford continua il mestiere intrapreso da suo padre e da suo nonno, Clayton sposa la bella Kate e decide di allontanarsi da quel tipo di vita diventando sceriffo e venendo ripudiato dal padre e dal fratello. Sulle tracce della famiglia Burroughs, però, si mette l’agente federale Holly, intenzionato a distruggere l’impero costruito nel tempo dai Burroughs. Clayton si vede così costretto a fare da intermediario fra l’agguerrito agente e il Halford che però non ha nessuna intenzione di trattare con un fratello disprezzato.
Bull Mountain è il primo romanzo di Brian Panowich ed è una vera sorpresa. Lo scrittore-pompiere dimostra di saper amalgamare una serie di scenari e linguaggi diversi sapendo adattare al presente un tema molto sfruttato (e talvolta abusato) quale è il contrabbando di alcolici. L’idea di evolvere il traffico di whiskey in marijuana e poi in metamfetamine è geniale; slega la vicenda da un periodo storico ben definito e garantisce al lettore la sensazione del tempo che scorre, cosa rara nella narrativa di oggi. Più che True Detective e Breaking Bad, richiamati dalla bandella libro, Bull Mountain per il modo con cui disegna il rapporto fra due fratelli ai confini della legge ricorda il recente Hell or High Water. Panowich dà l’impressione di attingere dal mondo del cinema, dalle serie tv e dalla letteratura con estrema facilità, rubacchiando qua e là. I fratelli Burroughs, nel loro rimanere eternamente legati alla terra di origine ricordano i personaggi dei romanzi di Wendell Berry, mentre per la loro violenza richiamano l’hard boiled più spinto, a metà fra Mickey Spillane e Elmore Leonard. Bull Mountain è insomma un romanzo ricco: in poco meno di 300 pagine costruisce una lotta fra bene e male e spinge il lettore alla riflessione sull’opportunismo, sul valore della famiglia e sul senso della vendetta.

mercoledì 5 aprile 2017

Film - Il permesso - 48 ore fuori (2017) di Claudio Amendola



Quattro detenuti del carcere di Civitavecchia escono per un permesso di 48 ore. Fra loro non si conoscono: sono Rossana (Valentina Bellè), ragazza di 25 anni arrestata per aver portato in Italia 10 chili di cocaina dal Brasile; Luigi (Claudio Amendola), cinquantenne che ha già scontato 17 anni per duplice omicidio; Angelo (Giacomo Ferrara), giovane finito in carcere per una rapina a un distributore finita male; Donato (Luca Argentero), 35 anni e condannato ingiustamente. Nei due giorni di libertà i quattro individui cercheranno di mettere ordine nelle loro esistenze e ritrovarsi nelle loro realtà di un tempo.
Quanta strada ha dovuto percorrere Claudio Amendola prima di potersi far conoscere come regista. Se il suo precedente film, l’ottimo La mossa del pinguino, era una commedia perfettamente aderente ai canoni del genere, con Il permesso – 48 ore fuori, l’attore (ma a questo punto pure regista e sceneggiatore) romano sceglie di intrecciare storie di persone sbandate, di personaggi messi ai margini della società in una Roma periferica e cruda. Amendola sceglie i toni del noir (e con Giancarlo De Cataldo come co-sceneggiatore non poteva essere altrimenti), e nelle vette più sanguigne del film ricorda un cinema italianissimo ma purtroppo dimenticato: quel noir urbano e senza speranza che aveva in Fernando Di Leo il suo miglior esponente. Il permesso è la dimostrazione di come fortunatamente il buon cinema di genere è vivo o comunque possibile nel nostro Paese, ormai praticamente scisso in due fra commedia e cinema d’autore.
Il permesso può essere visto come l’ulteriore passo in avanti su un percorso iniziato con Non essere cattivo e Suburra. Se registi come Brizzi, Genovese e Veronesi non trovano difficoltà realizzative per rimpinzarci di immagini di un’Italia pulita, frivola e sorridente, Amendola, con una regia pulita, con un ottimo cast, con una colonna sonora dalla forza evocativa, ma soprattutto con la sua esperienza, riesce a mostrare il lato brutto, sporco e povero dell’Italia lanciandosi in una non superficiale analisi sociale. L’attore nella sua regia riversa ciò che probabilmente ha appreso in Ultrà, in Soldati – 365 all’alba, in Poliziotti o in Domenica, in Suburra. Ci troviamo probabilmente alla fine di un percorso che il regista ha intrapreso più di trent’anni fa: oggi Amendola è un regista consapevole e Il permesso – 48 ore fuori è un film molto potente.

martedì 4 aprile 2017

Film - Life - Non oltrepassare il limite (2017) di Daniel Espinosa



Una squadra di astronauti riesce a prelevare un campione organico da Marte. Uno dei membri dell’equipaggio espone la cellula a stimoli esterni e l’essere, soprannominato Calvin, risponde gli impulsi. L’essere vivente però non è innocuo; cresce e soprattutto se disturbato dimostra di essere in grado di uccidere. Calvin diventa così una minaccia per l’equipaggio, la cui missione diventa quella di tenerlo lontano dalla Terra.
Life – Non oltrepassare il limite è un esempio di come la più classica fantascienza sia ancora viva e vegeta al cinema. Il regista Daniel Espinosa porta sullo schermo il canonico scontro fra terrestri e invasori alieni. Life si dimostra un buon film di puro intrattenimento; si allontana dai percorsi intellettuali e filosofici intrapresi negli ultimi anni dal genere con prodotti quali Interstellar, Arrival e la serie tv Westworld, per ricercare invece il divertimento del suo pubblico. Espinosa ha l’accortezza di non voler strafare: il suo Life si prende per quello che è, ossia un film che pone, senza calcare la mano, dilemmi etici e morali, e che spinge invece sulla suspense tipica di uno space movie in cui spiccano una roboante colonna sonora e un’abilità del regista nell’uso della macchina da presa che fluttua per tutta la durata del film all’interno della navicella.
Espinosa vince scegliendo di non prendersi sul serio fino in fondo senza però rinunciare al rigore tecnico, scientifico e filmico. Vince nello sfruttare l’enorme budget a disposizione e vince nella costruzione del suo team, una squadra composta da  alcune star di Hollywood quali Ryan Reynolds, Jake Gyllenhaal e Rebecca Ferguson. È il film adatto per staccare la spina, per distrarsi e per evadere: in questo senso Life si allinea all’horror più commerciale. Puro intrattenimento, shock prorompente e adrenalina a fiumi. Non è un film perfetto, intendiamoci, ma il finale a metà fra Jumanji e un paranoid horror è veramente azzeccato.

lunedì 3 aprile 2017

Libro - Nelle mani giuste di Giancarlo De Cataldo



È l’Italia tra il 1992 e il 1993. Il Muro di Berlino è caduto e il mondo non è più diviso in due blocchi. Mentre Il Psi e la Dc stanno affondando, il Pci vede uno spiraglio per arrivare al governo. Intanto però Totò Riina è stato catturato, e la mafia ha dichiarato guerra allo stato. È la prima Repubblica che giunge al capolinea, distrutta dalla criminalità organizzata, dalle stragi e da Mani Pulite. In questo contesto apocalittico si muovono il commissario Scialoja, corrotto e involontario erede del Vecchio di Romanzo Criminale, Stalin Rossetti, ex comandante di una cellula deviata dei servizi segreti che stringe rapporti con la mafia, e Ilio Donatoni, industriale di successo il cui impero è sporcato dalla criminalità organizzata.
L’Italia non era finita con la morte del Dandi e con l’arresto degli altri componenti della banda della Magliana. Le vicende raccontate in Romanzo Criminale sono solo un tassello della torbida storia italiana dal dopoguerra a oggi; una storia fatta di attentati, di servizi segreti deviati, di cospirazioni, di losche trattative e ovviamente di sangue.
Nelle mani giuste, scritto da Giancarlo De Cataldo a 5 anni di distanza da Romanzo Criminale del quale si dichiara ideale sequel, cerca di far luce su un biennio nerissimo della nostra storia recente. Lo scrittore ricostruisce la stagione delle stragi, delle trattative fra Stato e mafia e di Tangentopoli, richiamando in campo alcuni dei personaggi già presenti in Romanzo Criminale. Ritroviamo quindi il commissario Scialoja e la sua amante Cinzia Vallesi, in arte Patrizia. È un noir perfetto Nelle mani giuste: è perfetto per come prende le distanze dal suo predecessore, rinunciando a quel romanticismo che circondava personaggi come il Dandi e il Libanese; è perfetto per come architetta una trama complessa e frammentata in quattro distinti filoni che inesorabilmente si incontrano nel finale. È perfetto, infine, per come De Cataldo sa mixare personaggi storici realmente esistiti e characters di pura finzione, eventi veramente accaduti e fatti completamente inventati. De Cataldo rimane in bilico tra la fantasia, l’intrattenimento e il rigore storico, ricordando in alcuni passaggi il miglior Ellroy. In Nelle mani giuste nessuno è innocente in un’Italia nera e marcia. Lo scrittore oltre che attento alla correttezza storica, sviluppa la sua trama partendo dalla costruzione psicologica dei personaggi. Sono L’uso della suspense, la figura della femme fatale e dei gendarmi corrotti i mezzi con cui De Cataldo aderisce pienamente al genere noir, un genere che, probabilmente proprio per la storia del nostro Paese, si etichetta come puramente italiano e che trova proprio nello scrittore tarantino il suo miglior esponente.