giovedì 23 marzo 2017

Libro - L'estate in cui accadde tutto di Bill Bryson



È l’estate del 1927 e gli Stati Uniti si apprestano a vivere una stagione di eccezionali avvenimenti: Charles Lindbergh è il primo pilota a trasvolare l’oceano Atlantico e raggiungendo Parigi; Babe Ruth e Lou Gehrig animano i campi da baseball con la più grande squadra mai esistita, i New York Yankees. Il pugile Jack Dempsey scalda le folle di tutto il Paese, mentre il cinema conosce il sonoro. E ancora, le riviste e i quotidiani conoscono uno straordinario boom che permette alla popolazione di appassionarsi ai casi di cronaca, mentre le automobili cominciano ad affollare le strade delle città e le metropoli iniziano a svilupparsi in altezze vertiginose. Sono i ruggenti anni Venti, anni di felicità e benessere che saranno spazzati via dalla crisi del 1929 e dalla Grande Depressione che azzererà tutto negli anni Trenta.
Bill Bryson ha passato gran parte della sua vita a viaggiare per il mondo, a osservare da vicino la cultura di ogni popolo scoprendone le caratteristiche, sempre con una curiosità e un’ironia poi presenti in ogni sua opera. Con L’estate in cui accadde tutto, Bryson rinuncia all’indagine geografica per passare a quella storica.
Quello di Bryson è sicuramente un saggio storico, ma un saggio lontano anni luce dai libri scolastici o universitari. Lo scrittore entra nelle pieghe della società del tempo e nel costume per cercare un punto di inizio, un elemento riconducibile al presente. Bryson passa al setaccio ogni elemento della cultura americana nel raffinato gioco del “com’era una volta – come è oggi” e, con la sua consueta ironia e capacità nel raccontare l’aneddoto giusto al momento giusto, fornisce un’idea più che esaustiva di cos’era la vita negli Stati Uniti nel 1927.
Non è tutto rose e fiori quello che esce dal romanzo di Bryson, ma una miscela di eventi positivi come l’esplosione dell’editoria e dell’industria dell’automobile, e di fatti negativi come il dilagante razzismo, l’antisemitismo. Insomma, il quadro dell’America del 1927 fatto da Bryson restituisce un’idea di Paese pressoché identica a quello odierna: il Paese delle opportunità e del benessere, infettato però da tremende ambiguità che la storia non ha saputo eliminare.  

Film - Victoria (2015) di Sebastian Schipper



Victoria (Laia Costa) è una ragazza spagnola che vive da pochi mesi a Berlino. Alle 4 del mattino, all’uscita di un locale viene avvicinata da Sonne (Frederick Lau) e i suoi amici che le promettono di mostrarle il vero lato della città. Ma la loro notte votata al divertimento si trasforma in un viaggio di sola andata per l’inferno che culmina con una rapina in banca.
Non è tra i più originali il tema di Victoria, film tedesco del 2015 diretto da Sebastian Schipper. E in effetti Victoria non ambisce nemmeno a una sceneggiatura sopra le righe, indimenticabile. Victoria, Sonne e i suoi amici sono ragazzi come tanti, che trascorrono le proprie serate con una birra in mano, a ridere e scherzare. Nulla di sofisticato insomma.
Quello che rende Victoria un capolavoro (ci vogliamo sbilanciare) è che Victoria è stato realizzato come fosse un unico piano sequenza. Ora, per i profani, il piano sequenza è semplicemente l’uso di una sola inquadratura, talvolta molto lunga, per la rappresentazione di un segmento narrativo. Il piano sequenza dunque è l’antitesi del montaggio che tende a eliminare le parti superflue. Il recente Birdman di Iñarritu e il ben più vecchio Nodo alla gola di Hitchcock, utilizzavano dei piani sequenza in serie per dare un’impressione di continuità. In Victoria invece non c’è nessun trucco: le riprese sono iniziate alle 4.30 del mattino e sono terminate alle 6.54 senza soluzione di continuità. Sono due ore e mezza in cui progressivamente si passa da lunghe passeggiate e chiacchierate che lasciano trasparire uno spessore dei personaggi, al crimine più bieco, a una rabbia e povertà d’animo che esplodono nella seconda parte del film. Pur senza mai staccare il proprio sguardo dai suoi protagonisti, sempre seguiti dall’operatore Sturla Brandth Grøvlen, il film si trasforma passando dai dialoghi e dalle atmosfere tanto care a Richard Linklater, ai toni crudi più in linea con il cinema tedesco post-muro; e non è un caso se pensiamo che Schipper è stato assistente di Tom Tykwer, regista del film-manifesto Lola corre.
Ci voleva un film come Victoria: un film ambizioso per lo sforzo richiesto al cast e alla troupe, ma che centra in pieno l’obiettivo e sancisce l’esistenza di un cinema distante dall’industria americana, ma nemmeno appartenente a un circuito arthouse borioso e pieno di sé. Un cinema attentissimo al realismo, al narrare la vita vissuta, ma non per questo incline a scardinare inutilmente le teorie dei generi cinematografici.

mercoledì 22 marzo 2017

Film - Cinquanta sfumature di nero (2017) di James Foley



Ana (Dakota Johnson) e Christian (Jamie Dornan) tornati alle rispettive vite alla fine di Cinquanta sfumature di grigio, si rincontrano. Lui cerca di convincerla a tornare nella propria vita, lei chiede un nuovo accordo, basato su fiducia e amore. La coppia pare funzionare ma dovrà fare i conti con il nuovo capo di lei, Jack Hyde (Eric Johnson), e con una misteriosa ragazza appartenente al passato di Christian.
E.L. James, scrittrice della trilogia ha venduto, in 52 Paesi, 125 milioni di libri. Numeri che fanno paura (il dato è davvero preoccupante). Era chiaro che Hollywood non ci avrebbe messo molto a cogliere il potenziale filmico dei romanzi e infatti nel 2015 Sam Taylor-Johnson dirige 50 sfumature di grigio. Il film è un disastro di critica, ma un successone al botteghino: incassa quasi 570 milioni di dollari e spiana la strada alla realizzazione di Cinquanta sfumature di nero. Questa volta alla regia c’è James Foley, ma cambia poco. Cinquanta sfumature di nero non ci prova nemmeno a correggere gli errori del primo capitolo della trilogia (Cinquanta sfumature di rosso è atteso per il 2018). Il film inizia con un promettente “stavolta niente regole, niente punizioni e nessun segreto” che lascia fantasticare lo spettatore. Effettivamente la promessa viene mantenuta: nel nuovo Cinquanta sfumature non ci sono segreti, regole e punizioni. Non c’è praticamente nulla, soprattutto il tanto sponsorizzato erotismo (escludendo i seni nudi di Dakota Johnson). Cinquanta sfumature di nero si ripulisce di quella pochissima carnalità e passione che avevano in qualche modo caratterizzato il primo capitolo. Qua e là cerca di scimmiottare Eyes Wide Shut  (il party in maschera) e 9 settimane e ½ (l’inutile presenza di Kim Basinger), ma finisce per far rimpiangere quegli anni Novanta in cui l’erotismo era veramente presente nel cinema di Hollywood.
Cinquanta sfumature di nero è un film senza senso che si risolve nei primi quindici minuti e poi prosegue, per inerzia, sui binari di una commedia rosa con ambizioni da thriller. Uno spettacolo raccapricciante scandito da canzonette pop che accompagnano le misuratissime scene di sesso. Per carità ci troviamo all’interno di una mera operazione commerciale, ma Cinquanta sfumature di nero è veramente una pellicola ridicola per la totale piattezza psicologica dei personaggi; una piattezza che non vorremmo vedere trasferita sugli spettatori. Sarebbe veramente una catastrofe.

martedì 21 marzo 2017

Film - L'anno del terrore (1991) di John Frankenheimer



Roma, primavera del 1978. David (Andrew McCarthy), un giornalista americano già da cinque anni nella capitale, sogna di scrivere un romanzo di successo e per farlo decide di sfruttare gli avvenimenti della cronaca italiana. L’Italia sta vivendo infatti gli anni di piombo e il problema del terrorismo è all’ordine del giorno. David è amico di Italo (John Pankow), un professore universitario con contatti all’interno delle Brigate Rosse, ha una relazione con Lia (Valeria Golino), ragazza di buona famiglia, e a un ricevimento conosce Alison (Sharon Stone) intraprendente fotoreporter che sposa l’idea del romanzo di David e si offre di aiutarlo nelle ricerche. I due però capiranno presto che le loro fantasiose teorie non sono molto distanti dalla realtà.
Il 1978, per l’Italia è stato veramente L’anno del terrore, titolo di questa pellicola diretta dall’esperto John Frankenheimer. È l’anno del rapimento e dell’assassinio di Aldo Moro, drammatico evento che sconvolse l’Italia e il mondo. Il film di Frankenheimer ruota attorno a questo fatto senza mai centrarlo del tutto. L’anno del terrore è una pellicola completamente sbagliata: sbaglia nella ricostruzione del periodo, non approfondisce la situazione politica italiana e mischia Brigate Rosse, comunismo, movimenti operai, scioperi e terrorismo negando allo spettatore qualsiasi spiegazione; addirittura regista e sceneggiatore confondono Aldo Moro e Enrico Berlinguer. Insomma L’anno del terrore è un film americano nella sua accezione più negativa: pizza, mafia e mandolino non vengono nominati, ma poco ci manca. La cronaca italiana è trattata sempre da una distanza di sicurezza, e l’approfondimento dei fatti si adatta su un modello wikipedia.
Rimane solo la storia di finzione costruita attorno agli avvenimenti reali. Rimane la figura classica dell’incorruttibile giornalista che si fa agente segreto e raggiunge la verità aiutato dalla bella e disponibile aiutante. Quello che doveva essere un film in grado di mostrare al pubblico cosa fossero stati gli anni di piombo, finisce con l’essere un pasticcio spionistico in cui vincono gli sbadigli e la noia.

lunedì 20 marzo 2017

Film - Allied - Un'ombra nascosta (2016) di Robert Zemeckis



1942. Il comandante d’aviazione franco-canadese Max Vatan (Brad Pitt) è in missione a Casablanca: insieme all’agente Marianne Beausejour (Marion Cottilard), per l’occasione sua finta moglie, deve riuscire a farsi invitare a un ricevimento nell’ambasciata tedesca e, una volta all’interno, uccidere l’ambasciatore. La missione riesce e fra i due sboccia pure l’amore. Sistematisi a Londra, sposati e con una figlia, la coppia vive serenamente. Un giorno però Max viene avvisato dai superiori che la moglie è una spia tedesca. L’uomo, ovviamente scioccato dalla notizia, da quel momento ha 72 ore di tempo per provare l’innocenza della moglie, altrimenti dovrà ucciderla.
C’è Robert Zemeckis alla regia di Allied – Un’ombra nascosta, e la produzione non poteva scegliere regista più adatto. Zemeckis è un perfezionista amante della Hollywood classica perennemente alla ricerca della correttezza formale, e non un iconoclasta impegnato nella distruzione e ricostruzione dei generi. Con Allied, il regista di Forrest Gump richiama, e non poteva fare altrimenti, interi decenni di storia del cinema americano. L’ambientazione marocchina, che ovviamente ricorda il Casablanca di Michael Curtiz, strizza l’occhio anche a L’uomo che sapeva troppo di Hitchcock. Sono rimandi evidenti all’epoca d’oro di Hollywood, un’industria basata sullo star system e  sull’importanza del  physique du rôle. Zemeckis riesce a ricreare, grazie alla potenza dei suoi protagonisti, la stessa tensione dei drammi di sessant’anni fa, e permette allo spettatore, tramite un sottile gioco fatto di inquadrature, sguardi e costumi, di inserire Pitt e la Cotillard all’interno di un insieme popolato dai vari Cary Grant, James, Stewart, Ava Gardner o Lauren Bacall.
Intendiamoci, Allied non è un capolavoro: mentre Salvate il soldato Ryan era un colossale war movie, sostanzialmente perfetto per aderenza alla storia e conformità al genere, il film di Zemeckis è un buon dramma sentimentale che permette, anche allo spettatore meno colto, di scovare e apprezzare i rimandi al passato. Allied rimane avvinghiato alla forza della coppia protagonista e riesce a offrire sequenze di alto cinema (la scena d’amore durante la tempesta di sabbia è da manuale); Zemeckis, dimostrando che per lui i tempi migliori non sono ancora passati, nasconde i buchi di una sceneggiatura, scritta da Steven Knight, incapace di dare il giusto valore alla spy story che rimane inesorabilmente sullo sfondo.