domenica 19 marzo 2017

Top 7 - I migliori horror italiani



C’era un tempo felice in cui il cinema italiano si cimentava con destrezza e ingenuità in imitazioni a costi ovviamente ridotti dei vari capolavori che l’industria americana propinava a tutto il mondo. C’era un tempo in cui agenti segreti, vampiri, supereroi, soldati e zombie sguazzavano sui set di Cinecittà, la nostra Hollywood sul Tevere.
C’era un tempo, prima che le tv private si portassero via tutto, in cui l’Italia sfornava film horror di pregevole fattura, che riuscivano a distaccarsi per inventiva dagli originali americani. Noi dell’Ignorante vogliamo, un po’ nostalgicamente, tornare a quella magica stagione di cinema riscoprendo quelli che per noi rimangono i sette gioielli più preziosi del cinema di paura del nostro Paese.
7 – I corpi presentano tracce di violenza carnale (1973) di Sergio Martino. Titolone! Conosciuto all’estero anche come Torso, il film di Sergio Martino è un ottimo esempio di giallo italiano, in cui detective story, ma soprattutto orrore ed erotismo si fondono in un mix di sadismo e violenza. Per gli esperti è un must, per tutti gli altri è da riscoprire.
6 – I tre volti della paura (1963) di Mario Bava. Mario Bava è un po’ il padre simbolico dell’horror italiano e con I tre volti della paura Bava costruisce un film a episodi chiamando in causa addirittura il celebre Boris Karloff. I tre volti della paura è un finissimo esempio di horror gotico italiano, apprezzatissimo anche all’estero, soprattutto da Tarantino.
5 – Non si sevizia un paperino (1972) di Lucio Fulci. Fulci è sicuramente noto in tutto il mondo per le sue pellicole iper splatter tra gli anni Settanta e Ottanta, capolavori come Zombi 2 e Paura nella città dei morti viventi. Noi dell’Ignorante, però, preferiamo ricordarlo con questo morboso giallo ambientato in un paesino retrogrado del sud Italia. Non si sevizia un paperino è veramente un film inquietante e disturbante in certe sue scene. C’è proprio tutto: repressione religiosa, sessualità, pedofilia, e ovviamente violenza e sadismo.
4 – Cannibal Ferox  (1981) di Umberto Lenzi. Il cannibal movie è un filone del cinema horror prettamente italiano. Senza dilungarci in inutili approfondimenti, vi citiamo le due scene cult: l’evirazione e lo scoperchiamento della calotta cranica di John Morghen, alias Giovanni Lombardo Radice, e la morte di Zora Kerowa appesa per le mammelle e infilzata con degli uncini. Non c’è bisogno di aggiungere altro.
3 – Reazione a catena (1971) di Mario Bava. Assieme a Sei donne per l’assassino, probabilmente è il film che più di tutti ha contribuito alla nascita e allo sviluppo dello slasher movie hollywoodiano. La saga di Venerdì 13 e quella di Halloween nascono soprattutto dalla violenza di Reazione a catena. Il film di Bava è la messa in scena e l’esasperazione della cattiveria dell’uomo, palesata con un body count invidiabile.
2 – Sei donne per l’assassino (1964) di Mario Bava. È il film che segna un prima e un dopo nel cinema di genere italiano. L’assassino dal volto coperto e vestito di pelle nera, capace di delitti efferatissimi nasce proprio qui. In Sei donne per l’assassino ogni omicidio diventa una performance d’autore sempre diversa per modalità. Da ricordare l’omicidio per ustione di Mary Arden, e  quello di Claude Dantes nella vasca da bagno. Stiamo parlando di un capolavoro.
1 – Cannibal Holocaust (1980) di Ruggero Deodato. “Cosa cazzo ho appena visto?” potrebbe essere un’ottima recensione per questo film che veramente lascia senza parole. Si è detto proprio di tutto su Cannibal Holocaust; noi, un po’ banalmente, vi segnaliamo il tema principale scritto da Riz Ortolani e la celeberrima scena dell’impalamento dell’indigena. Un capolavoro unico per il modo con cui riesce a mostrare la violenza umana. Pazzesco, film così non ne fanno più.

sabato 18 marzo 2017

Film - Space Cowboys (2000) di Clint Eastwood



Un vecchio satellite russo è fuori controllo e rischia di cadere sulla Terra. Dato che nessuno è in grado di fronteggiare una tecnologia così antiquata, la Nasa si rivolge all’anziano Frank Corvin (Clint Eastwood), originariamente a capo del progetto Dedalus sciolto negli anni Cinquanta. Frank, desideroso di tornare nello spazio, ricostituisce il suo team dell’epoca. Il suo vecchio e odiato capo Bob Gerson (James Cromwell), responsabile della missione, non ha però nessuna intenzione di spedire gli arzilli pensionati in orbita. La strategia è infatti quella di sfruttare le loro conoscenze per preparare una squadra di giovani reclute. Ovviamente non tutto andrà come previsto e Frank e i suoi saranno costretti a partire.
Prima di rivisitare la storia recente del suo Paese, prima di rileggere la guerra in Iraq, quella in Corea e i conflitti mondiali, Clint Eastwood era un regista votato all’action, amante del western e figliastro di Don Siegel e Sergio Leone. Con Space Cowboys, film a metà fra l’azione e la fantascienza, il vecchio Clint continua un percorso tutto personale all’interno dei generi e dei miti che hanno reso grande Hollywood.
Space Cowboys è la classica corsa contro il tempo in cui la guerra generazionale fra giovani forti, atletici ma inesperti, e anziani acciaccati ma svegli viene vinta da quest’ultimi che riescono a sbrogliare la matassa e a riscuotere la tenerezza del pubblico. In Space Cowboys è tutto perfettamente allineato ai canoni del cinema classico: c’è la frontiera, rappresentata non più dal selvaggio west, ma dallo spazio, c’è un cattivo da affrontare, un satellite scassato ovviamente russo, e ci sono i buoni, personaggi tutti d’un pezzo a cui Eastwood ha tolto i cavalli e i cinturoni e li ha sostituiti con le tute spaziali.
Insomma, Eastwood non riscrive i generi del cinema. Non è un Tarantino che ruba, mescola e ricrea: al contrario, semplicemente si diverte a rievocare i miti di un passato nostalgico in un cinema sicuramente di qualità (anche perché i fondi e i mezzi utilizzati sono notevoli), mirando, e riuscendo a ottenere, soprattutto l’intrattenimento del suo pubblico.

venerdì 17 marzo 2017

Libro - Follie di Brooklyn di Paul Auster



Raggiunta la pensione, Nathan Glass decide di trasferirsi al Brooklyn, sua città natale, per vivere in serenità il tempo che gli resta. Ha combattuto e sconfitto un tumore ai polmoni, è divorziato e non riesce a mantenere un buon rapporto con la figlia Rachel. Il suo progetto, oltre quello di aspettare la morte, è quello di scrivere un romanzo che raccolga la follia umana. I suoi piani però vengono stravolti grazie al ritrovato nipote Tom, la nipote Aurora e la sua figlioletta Lucy, che trascineranno Nathan in un vortice di avventure che gli faranno scoprire nuovi lati dell’umanità e gli forniranno materiali per il suo libro.
Paul Auster è uno degli scrittori di punta della narrativa contemporanea statunitense e non lo scopriamo certamente noi. Con Follie di Brooklyn però, Auster costruisce un racconto che fatica a stare in piedi a causa della sua spensieratezza mischiata a temi drammatici e terribili che vengono trattati. Follie di Brooklyn è una catena di racconti e biografie. Auster sembra volersi soffermare sull’importanza dei rapporti umani e del valore di una vita narrata, potente strumento che dà valore alle anonime vite di ognuno di noi. È uno spunto interessante, geniale a tratti, che però si perde un po’ nei risvolti della trama, mai uniforme e troppo frammentata.
Intendiamoci, stiamo parlando di un grande autore e Follie di Brooklyn è sicuramente un buon romanzo. Manca però una vera direzione intrapresa; sembra che molto sia rimasto nella penna dello scrittore e alla fine il lettore (o almeno noi che l’abbiamo letto) rimane con il dubbio su cosa siano esattamente le follie del titolo. Per carità di follia umana nel racconto se ne può trovare senza doversi nemmeno impegnare, ma il richiamo all’11 settembre delle ultime pagine (le ultimissime due!) sembra quasi una trovata dell’editore che, con una quarta di copertina costruita ad hoc, vuole sviare il pubblico sfruttando un tema a cui il pubblico, nel 2005, anno di pubblicazione del romanzo, mostrava una comprensibilissima sensibilità.

mercoledì 15 marzo 2017

Film - Life of Crime (2013) di Daniel Schechter



Detroit, 1978. I due ladruncoli Ordell e Louis (Mose Def e Louis Gara) tentano il colpo della vita rapendo Mickey Dawson (Jennifer Aniston) con l’intenzione di chiedere un cospicuo riscatto al ricco e benestante marito Frank (Tim Robbins). Quest’ultimo però è in vacanza con l’amante Melanie (Isla Fisher) e non ha nessuna intenzione di cedere alle minacce dei criminali. Informata dai suoi stessi rapitori, Mickey si accorderà con loro per vendicarsi del marito.
Life of Crime è un film che sa molto di fratelli Coen, ambientato in una precisa dimensione temporale e ricoperto di una patina vintage. Siamo all’interno di una crime comedy tratta dal romanzo Scambio a sopresa di Elmore Leonard, scrittore amatissimo da Tarantino. E Life of Crime, effettivamente ci prova ad avvicinarsi all’universo filmico del regista di Knoxville: in una vicenda in cui si muovono personaggi strampalati, il regista Daniel Schechter, carneade qualunque della Hollywood di oggi, cerca in tutti i modi di regalare al pubblico una serie di dialoghi instant cult e dal sapore vagamente pulp. Ma fallisce clamorosamente mancando il bersaglio: il pulp à la Tarantino è solitamente inteso come quel genere popolare contraddistinto da una ricerca esasperata del sensazionale (o comunque dell’eccessivo); Life of Crime, invece, si perde in un copione che sembra scritto appositamente per Adam Sandler e in una risoluzione della vicenda che esclude ogni possibile ricerca di climax. Life of Crime è un film altamente disturbante per la sua banalità. Poteva essere un mucchio di belle cose e invece si limita ad assomigliare alla brutta, bruttissima, copia di Jackie Brown di Tarantino. Quel Jackie Brown in cui compaiono due ladri interpretati da Samuel L. Jackson e Robert De Niro. Sono sempre loro, Ordell e Louis, utilizzati da Elmore Leonard anche nel romanzo Punch al rum, base per il film di Tarantino.
Ecco, la materia prima da cui Tarantino e Schechter partivano era più o meno la stessa. Capite quanto conta la mano del regista?

martedì 14 marzo 2017

Film - John Wick - Capitolo 2 (2017) di Chad Stahelski



L’ex sicario John Wick (Keanu Reeves), deciso a ritirarsi a vita privata, viene raggiunto da una sua vecchia conoscenza, il boss italiano Santino D’Antonio, (Riccardo Scamarcio) che, con un ricatto mascherato da patto di sangue, lo ingaggia per una complicata missione che potrebbe garantire al boss il controllo di un’organizzazione criminale internazionale.
Keanu Reeves torna a vestire gli eleganti panni dell’implacabile killer John Wick, ennesimo duro del cinema statunitense, personaggio segnato dal torbido passato e dalla coscienza sporca, ma dall’animo puro. John Wick è il classico criminale deciso di cambiare in meglio la propria vita, ma incapace di tagliare i fili che lo legano al passato, figura tormentata perennemente inseguita dai suoi errori. Ecco, in questo il cinema d’azione hollywoodiano dimostra di essere completamente privo di idee e clamorosamente ripetitivo. In realtà però questo è l’unica pecca del film. John Wick – Capitolo 2 rispecchia alla perfezione l’idea di sequel che hanno gli americani: la pellicola ripresenta le qualità del primo capitolo, ma le porta all’esagerazione, all’abbondanza. Il pubblico ne vuole di più, è questo ciò che conta.
Ebbene, John Wick 2 mette subito in chiaro di essere il fratello gemello del primo capitolo; come nel precedente, la trama è ridotta a mero pretesto per la messa in scena di sparatorie, corpi a corpo, inseguimenti e esplosioni. Il film mantiene un altissimo livello di adrenalina per tutta la sua durata, si distingue per un ragguardevole body count, ma soprattutto restituisce al genere, dopo anni di crisi, un nuovo volto (che in realtà è il vecchio e arcinoto Keanu Reeves) per il pubblico. Keanu Reeves, stella del cinema d’azione negli anni Novanta (Speed, The Matrix, Point Break, tanto per citarne alcuni), decennio d’oro per il genere, torna a coprire la parte dell’eroe dimostrando che l’action è ancora troppo attaccato ai suoi volti più celebri.
E forse consapevole di questo, il regista Chad Stahelski, in perfetta salsa postmoderna, ha provato a recidere questo cordone ombelicale: Stahelski, stuntman prima che regista, è riuscito a creare un pot-pourri fatto da reminescenze bondiane, cinema asiatico à la John Woo, ambientazioni arcaiche dal sapore letterario e azione spiccia da videogioco arcade. È un minestrone abbondante e saporito, che noi non possiamo non consigliare.