Raggiunta la pensione, Nathan
Glass decide di trasferirsi al Brooklyn, sua città natale, per vivere in serenità
il tempo che gli resta. Ha combattuto e sconfitto un tumore ai polmoni, è
divorziato e non riesce a mantenere un buon rapporto con la figlia Rachel. Il
suo progetto, oltre quello di aspettare la morte, è quello di scrivere un
romanzo che raccolga la follia umana. I suoi piani però vengono stravolti grazie
al ritrovato nipote Tom, la nipote Aurora e la sua figlioletta Lucy, che
trascineranno Nathan in un vortice di avventure che gli faranno scoprire nuovi
lati dell’umanità e gli forniranno materiali per il suo libro.
Paul Auster è uno degli scrittori
di punta della narrativa contemporanea statunitense e non lo scopriamo
certamente noi. Con Follie di Brooklyn però,
Auster costruisce un racconto che fatica a stare in piedi a causa della sua
spensieratezza mischiata a temi drammatici e terribili che vengono trattati. Follie di Brooklyn è una catena di
racconti e biografie. Auster sembra volersi soffermare sull’importanza dei
rapporti umani e del valore di una vita narrata, potente strumento che dà
valore alle anonime vite di ognuno di noi. È uno spunto interessante, geniale a
tratti, che però si perde un po’ nei risvolti della trama, mai uniforme e
troppo frammentata.
Intendiamoci, stiamo parlando di
un grande autore e Follie di Brooklyn
è sicuramente un buon romanzo. Manca però una vera direzione intrapresa; sembra
che molto sia rimasto nella penna dello scrittore e alla fine il lettore (o
almeno noi che l’abbiamo letto) rimane con il dubbio su cosa siano esattamente
le follie del titolo. Per carità di follia umana nel racconto se ne può trovare
senza doversi nemmeno impegnare, ma il richiamo all’11 settembre delle ultime
pagine (le ultimissime due!) sembra quasi una trovata dell’editore che, con una
quarta di copertina costruita ad hoc, vuole sviare il pubblico sfruttando un
tema a cui il pubblico, nel 2005, anno di pubblicazione del romanzo, mostrava
una comprensibilissima sensibilità.