domenica 24 settembre 2017

Libro - Works di Vitaliano Trevisan



Non ci sono i soldi. Inizia più o meno così Works di Vitaliano Trevisan. Inizia con un ragazzino di quindici anni che, una sera a cena, chiede al padre una bicicletta nuova. Ma appunto non ci sono i soldi. È l’ingresso del giovane nel mondo del lavoro.
Works è un racconto fluido, è la vita dello scrittore narrata attraverso le sue tante, tantissime esperienze professionali. Dalla metà degli anni Settanta, all’inizio degli anni zero (al 2002, precisamente) Trevisan racconta la sua vita professionale, raccontando in questo modo quella di tutti e l’intero mondo del lavoro in Italia, in territorio veneto in particolare. Un lavoro fatto di contratti inesistenti, di posizioni precarie, stipendi miseri, di favoritismi e clientelismi. Di rischi e pericoli, ma anche di razzismo e di odio. Works è sia un racconto personalissimo, sia il resoconto degli ultimi quarant’anni del nostro Paese. Un Paese condizionato dai movimenti politici e dal fallimento degli ideali negli anni Settanta, dall’esplosione e dalla diffusione dell’eroina, sostituita negli anni Ottanta dalla cocaina. Un Paese selvaggio per il suo modo di non applicare i codici, le leggi, le normative. In tutto questo Trevisan non è persona innocente; non è vittima di un sistema su cui la nostra Costituzione sarebbe fondata. Con estrema sincerità lo scrittore non si estrae dalla melma discolpandosi cercando motivazioni al suo agire.  Ammette candidamente le sue malefatte, confessa spaccio e consumo di marijuana prima e cocaina poi. Accetta impieghi in nero, giornate da 12 ore di lavoro, si muove in ambienti senza alcuna misura di sicurezza. Sfiora la morte, fugge in Germania per un massacrante lavoro stagionale che non dà giorni di pausa. Insomma, Trevisan che oggi scrive e fa molto altro e ha una pagina su Wikipedia, in fondo è uno di noi, uno che ha conosciuto il lercio che c’è, ne ha fatto parte e lo racconta nel modo che gli è più consono. Scrivendo.
Il lavoro raccontato dallo scrittore veneto non è più strumento di realizzazione personale come sostenuto dalla nostra Costituzione. Per Trevisan, che in circa 25 anni è stato geometra, magazziniere, lattoniere, gelataio e portiere notturno, il lavoro è solo ed esclusivamente un modo per vivere, per tirare avanti economicamente e psicologicamente. È una meccanismo infernale che schiavizza le persone riducendole appunto a operai, dipendenti, sudditi, in un micidiale rapporto di potere, condizionato da spintarelle, favoritismi, da amicizie e conoscenze.

sabato 16 settembre 2017

Libro - Vinca il peggiore. La più bella partita di basket della mia vita di Enrico Franceschini



Il racconto di Davide che sconfigge Golia contenuto nel primo libro di Samuele è uno dei passaggi biblici più trasposti e metaforizzati nella cultura pop dell’ultimo mezzo secolo. Trasformata in favola, film e fumetto, la storia del giovane pastore Davide che sconfigge il gigante guerriero Golia salvando l’esercito di Saul contiene tutti quegli elementi e quei valori che lo sport, a qualsiasi livello, cerca di trasmettere. E più volte le gesta di atleti divenuti poi leggendari hanno saputo essere più appassionanti e più emozionanti di una sceneggiatura studiata a tavolino da professionisti di Hollywood. La Nazionale di Bearzot del 1982 che batte il Brasile di Socrates; l’Italia del basket che all’Olimpiade di Atene del 2004 strapazza la Lituania dei giganti conquistando finale e medaglia (sarà un bellissimo argento); Roberta Vinci che agli US Open sconfigge in rimonta la padrona di casa e favoritissima Serena Williams, lanciata verso il grande Slam, e si regala una finale storica con l’amica Flavia Pennetta. Potremmo continuare per ore in un elenco infinito, soprattutto perché ogni nazione ha i suoi eroi, le sue storie da raccontare.
Enrico Franceschini, giornalista e scrittore, da molti anni corrispondente estero per le maggiori testate italiane, con Vinca il peggiore. La più bella partita di basket della mia vita, ha scelto una storia sconosciuta ai più (lo era anche per chi sta scrivendo) per raccontare la bellezza e la magia di un Davide che sconfigge Golia.
New York, 1985. In un primo d’aprile che promette neve, un ragazzotto arrivato dall’Italia in cerca di fortuna entra in un bar per vedere la finale del campionato universitario di basket. A separare il titolo dalla favoritissima Georgetown University c’è un gruppo di studenti della Villanova University, un piccolo college cattolico della Pennsylvania. Da una parte ci sono i migliori giovani del Paese, destinati a trasformare il basket in una professione, dall’altra un gruppo di ragazzi allenati da un italo-americano, tale Rollie Massimino, artefice della crescita sportiva e umana dei suoi giocatori.
Franceschini è una voce del basket che si è formata nell’epoca di Aldo Giordani, l’uomo che negli anni Settanta cercò di rompere l’egemonia del calcio in Italia, portando alla Domenica Sportiva una rubrica sul basket. Flavio Tranquillo e Federico Buffa, tanto per fare due nomi, hanno iniziato a muoversi sotto la sua ala. Questo per dire che, come Tranquillo e Buffa, Franceschini non solo ne capisce, ma è anche e soprattutto narratore capace di emozionare anche il lettore che col basket non ha nulla da spartire. Scegliendo di raccontare una storia americana (già, anche gli americani per qualche volta sono stati Davide e non Golia; la finale di hockey maschile delle olimpiadi invernali del 1980 ne è un esempio), il giornalista trasporta lo scrittore in uno scenario conosciuto il più delle volte solo attraverso uno schermo. Vinca il peggiore è un viaggio nel tempo e nello spazio. E fanno bene all’animo storie di questo tipo, perché sono la benzina che alimenta milioni di sportivi la cui medaglia d’oro può essere una maratona corsa sotto le quattro ore (quattro ore!) o la vittoria di una campionato di terza categoria. Sono storie che scaldano l’esistenza di chi vuole divertirsi per evadere e per dimenticare che il lunedì mattina bisognerà comunque timbrare il cartellino.

domenica 10 settembre 2017

Libro - Il fantasma di Harlot. Il romanzo della CIA di Norman Mailer



Accostarsi a Norman Mailer non è mai semplice. C’è sempre il timore di non essere all’altezza di uno dei più grandi scrittori americani del Novecento. Uno che ha contribuito alla nascita del New Journalism, quello stile anticonvenzionale fatto di cronaca e impressioni personali molto in voga a partire dagli anni Sessanta.
Con Il fantasma di Harlot. Il romanzo della CIA, terzultima opera di fiction dello scrittore morto nel 2007, Mailer ricostruisce, l’epopea dell’agenzia di spionaggio più famosa al mondo: la CIA. Attraverso l’esistenza dell’agente Harry Hubbard, istruito fin da ragazzo, appena dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, dal mitologico Hugh Tremont Montague, detto Harlot, Mailer ripercorre la storia dell’agenzia a partire dagli anni Cinquanta, con la Guerra Fredda e con il rapporto col nemico da sconfiggere, il KGB.
Nelle oltre 1000 pagine che costituiscono il romanzo, lo scrittore ricostruisce minuziosamente con la sua solita precisione e eleganza la cronologia degli eventi che hanno scandito la vita più o meno segreta dell’agenzia di Langley e degli Stati Uniti. Ci sono dunque le prime operazioni nella Berlino divisa dal filo spinato (il muro arriverà qualche anno più tardi); ci sono le missioni nel centro e nel sud America per evitare derive comuniste. E c’è soprattutto l’odio verso Fidel Castro e il coinvolgimento della mafia italo-americana nel tentativo di eliminarlo, con l’operazione fallita alla Baia dei Porci e l’escalation di eventi che porterà all’assassinio del presidente Kennedy.
C’è, insomma, tutta la storia recentissima americana, fatta di bugie, doppi giochi e inganni e soprattutto fatta di un’imperante paranoia che porta il lettore all’interno di una spirale in cui è impossibile distinguere il bene e il male, il giusto e lo sbagliato.
Mailer dà la sensazione di voler realizzare a tutti i costi un romanzo monumentale, una vera e propria bibbia per gli amanti del genere spionistico. E nonostante alcune parti risultino leggermente stucchevoli, il racconto scardina le imposizioni del genere, comunque di intrattenimento, e riesce ad abbracciare un pubblico più ampio, spingendo il lettore a interrogarsi sulla bontà dell’operato del suo amato Paese. Un romanzo forse al giorno d’oggi datato (fuori catalogo ormai da anni), ma che comunque spinge alla riflessione.

mercoledì 19 luglio 2017

Libro - Red or Dead di David Peace



La storia del calcio è costellata di allenatori leggendari che, per i risultati ottenuti, vengono sempre accomunati al nome della squadra che hanno guidato; la Juventus di Lippi, il Manchester di Ferguson, la Grande Inter di Herrera. In quella metafora che vede il gioco del calcio come una guerra combattuta da due eserciti su un campo di battaglia, l’allenatore assume in pieno la funzione del condottiero, di  vero e proprio Alessandro Magno pronto a morire per i suoi giocatori.
A Liverpool, tra il 1959 e il 1974, questa persona è stata Bill Shankly. Bill Shankly è stato l’uomo che raccolse il Liverpool dai campi fangosi e acquitrinosi della Seconda Divisione inglese e lo portò a vincere tre campionati, due Coppe di Inghilterra, quattro Charity Shield e una Coppa Uefa.  
Red or Dead, romanzo di David Peace, racconta l’epopea di Bill Shankly sulla panchina del Liverpool ed è il seguito ideale de Il maledetto United, racconto che descriveva i 44 giorni di permanenza sulla panchina del Leeds United di Brian Clough, uno che, insieme a Shankly, è considerato tra i più grandi allenatori della storia del calcio inglese.
Red or Dead, è bene chiarirlo, non è una cronaca sportiva; il palmares del Liverpool e di Shankly sono disponibili online, non serve leggersi un libro di più di 600 pagine. Non siamo nemmeno in presenza di un memoriale calcistico intriso di quella nostalgia che al giorno d’oggi va tanto di moda. Red or Dead è un romanzo calcistico che non parla di calcio. David Peace, attraverso un’accurata ricostruzione storica basata su un’ampia bibliografia fornita al lettore nelle ultime pagine del libro, prova a spiegare l’importanza di alcuni valori sportivi e civili. Bill Shankly è stato un uomo che ha fondato la sua esistenza di marito, padre e professionista sull’umiltà, sul rispetto e sul lavoro. Dalle pagine scritte nel suo stile conciso e tagliente, Peace ricostruisce un calcio fatto di gentiluomini capaci di guadagnare molto, ma di rispettare la parola data, di sudare quotidianamente per regalare un sorriso alle migliaia di persone accalcate sulle traballanti tribune degli stadi di tutta Inghilterra. Insegna che non c’è nulla di male dal farsi prendere dall’ossessione per la vittoria, per i tre punti (che un tempo erano due), per quel successo che a fine stagione può voler dire alzare una coppa. L’ossessione, secondo Peace e secondo Shankly corrisponde alla passione, tormentosa, sanguigna, vero e proprio debito nei confronti di quelle persone che sacrificavano tempo e denaro per assistere alle gesta della squadra della città.
Red or Dead racconta come dovrebbe essere lo sport dai due lati: da chi lo pratica e da chi lo guarda. E non importa se giocate in Serie A o all’oratorio con gli amici. Perché siamo sempre e comunque tutti uomini.

domenica 2 luglio 2017

Libro - I venerdì da Enrico's di Don Carpenter



Grazie a un racconto venduto a Playboy, Dick Dubonet, aspirante scrittore, ha guadagnato 3000 dollari. Nei salotti della Portland di inizio anni Sessanta al suo fianco c’è sempre la splendida Linda, innamorata più del suo successo che di lui. La scena letteraria della città dell’Oregon è animata però anche da altri aspiranti scrittori: c’è Stan Winger, giovane scapestrato con la passione per i racconti pulp e per i furti e c’è Charlie Monel che, reduce dalla guerra in Corea, vorrebbe scrivere un romanzo bellico migliore de Il nudo e il morto di Norman Mailer e de La sottile linea rossa di James Jones. Charlie, che di Stan è l’insegnante di scrittura creativa, vive con la moglie Jaime che ha raggiunto un inatteso successo editoriale con un romanzo scritto in segreto e ispirato dalle sue memorie familiari. Le vite di questi uomini, perennemente alla ricerca di una vera autorealizzazione si intrecciano per vent’anni tra Portland, San Francisco e Hollywood, luogo capace di regalare gloria e distruggere sogni.
I venerdì da Enrico’s è un romanzo che Don Carpenter, morto suicida, ha lasciato incompiuto nel 1995. Ci ha pensato Jonathan Lethem a scovarlo nella sua casa di Mill Valley in California, a completarlo e a pubblicarlo nel 2014. È un romanzo che parla di scrittori; scrittori che inseguono la gloria, il successo, il denaro. Traspare molta frustrazione dalle pagine di I venerdì da Enrico’s. La frustrazione che prova Charlie, perennemente al lavoro sul Great American Novel, il grande romanzo americano, nel momento in cui è la moglie a sfondare sul mercato. La frustrazione di Dick nel non riuscire a replicare il suo successo (seppur minimo). C’è insomma un conflitto fra lo scrittore, perso all’interno della propria arte ma incapace di trovare una vera e propria legittimazione, e l’uomo, alle prese con i problemi di tutti i giorni come il pagare l’affitto, l’accudire una figlia. E se per alcuni la soluzione migliore è ripiegare a Hollywood adattando il proprio talento per la scrittura su commissione di sceneggiature e copioni, per altri il modo più adatto per andare avanti è il barcamenarsi in locali fumosi di cui Enrico’s ne è il simbolo, accompagnandosi con alcol scadente e sigarette ritoccate alla marijuana, mantenendo viva un’ambizione destinata a rimanere chimera.