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giovedì 13 aprile 2017

Film - Lion - La strada verso casa (2016) di Garth Davis



Saroo è un bambino indiano di 5 anni. Un giorno si addormenta su un treno e si risveglia nella caotica Calcutta. Trovato dalle autorità, Saroo non riesce a spiegare la sua provenienza. Finisce così prima in un istituto e poi in Tasmania, adottato da una coppia australiana. Più di vent’anni dopo, ormai cresciuto e perfettamente inserito nella società australiana, Saroo inizia a covare il desiderio di poter rivedere la sua famiglia naturale. Grazie a Google Earth comincia così delle complicate ricerche, nella speranza di rintracciare il suo villaggio e quindi la sua famiglia.
È pratica piuttosto comune a Hollywood, quella di riassumere una nazione intera nelle facce e nei corpi di pochissimi attori selezionati: Javier Bardem e Penelope Cruz rappresentano la Spagna, Jean Reno la Francia; se serve un tedesco il primo a essere chiamato è Daniel Bruhl. Ecco, il rappresentante dell’India è Dev Patel, protagonista (o quasi) di Lion – La strada verso casa, primo lungometraggio di Garth Davis.
È un ottimo film questo Lion. Pur raccontando una storia il cui finale è intuibile fin dai primi minuti, riesce a fuggire da quella retorica che sporca sempre film di questo tipo. C’è una cura nei dettagli che eleva Lion a un livello più alto: c’è una fotografia curatissima che restituisce squarci di India di crudele bellezza. C’è una colonna sonora sontuosa, potente che si fa portatrice di significato, che mette pathos e spinge al climax. Lion potrebbe apparire come il classico film da premi, da statuette e tappeti rossi. La storia di Saroo, incredibilmente vera, non richiedeva alcun adattamento in fase di scrittura: c’era il rischio di esagerare, di scadere nel patetico. Ed è qui che Lion diventa un ottimo film: non si prolunga eccessivamente sul suo finale scontato e risaputo, ma spinge invece nella costruzione iniziale dei personaggi, calcando la mano più sull’inizio della vicenda con Saroo bambino (interpretato da Sunny Pawar) che sull’ossessiva ricerca della seconda parte. Se negli anni abbiamo visto scadenti biopic e drammoni strappalacrime che puntavano solo al sensazionalismo, Lion è la dimostrazione che si può fare ottimo cinema partendo da una vicenda (comunque vera) che pone i sentimenti davanti a tutto.

lunedì 10 aprile 2017

Film - A spasso con Bob (2016) di Roger Spottiswoode



James Bowen (Luke Treadaway) è un senzatetto che si guadagna da vivere suonando per le strade di Londra. È un tossicodipendente che nutre la voglia di cambiare vita e in questo si lascia aiutare da Val (Joanne Froggatt), operatore di supporto che riesce a sistemarlo in una casa popolare di Tottenham. E proprio nel suo appartamento, una sera James trova un gatto rosso. Non riuscendo a trovare il proprietario dell’animale, James comincia a prendersi cura del gatto (ribattezzato Bob). La strana paternità aiuterà James a mettersi il passato alle spalle.
È un brutto difetto del nostro cinema quello di tradurre malamente in italiano i titoli originali delle produzioni estere. Era successo per The Eternal Sunshine of the Spotless Mind, trasformato barbaramente in Se mi lasci ti cancello; è accaduto anche per A Street Cat Named Bob, traslato con un A spasso con Bob che suggerisce tante cose, tutte piuttosto leggere, spensierate e forse demenziali. Ecco, niente di più sbagliato.
Il film di Roger Spottiswoode è la trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo scritto da James Bowen, vero ex-eroinomane capace di uscire dalla dipendenza dalle droghe e trasformare la sua vita. A spasso con Bob è sicuramente un film che cerca e tocca nel modo giusto corde piuttosto delicate. Riesce nell’intento non banale di mostrare gli effetti collaterali dell’abuso di droghe. Spottiswoode non si sofferma a mostrare i danni sul corpo umano, comunque osservabili durante il film; preferisce piuttosto evidenziare il degrado, la decadenza, la povertà e l’esclusione sociale che condanna chi finisce nel tunnel della dipendenza. Soprattutto nei primi minuti del film le condizioni di vita dei senzatetto sono mostrate con un realismo piuttosto crudo, senza alcuno sconto.
Il secondo obiettivo centrato dal film è quello di mostrare in maniera chiara e lineare il duro processo di guarigione; una guarigione che passa da infiniti colloqui con operatori di supporto, dall’assunzione controllata di metadone, dalla fiducia delle poche persone che ancora non hanno voltato le spalle, e, nel caso di Bowen, da un simpatico gatto rosso il cui punto di vista è sottolineato da un uso sapiente del point of view. A spasso con Bob è un film purtroppo passato in sordina nel nostro paese, ma che dovrebbe essere utilizzato in ambienti educativi. È un film in cui alla fin vincono tutti e a trionfare sono i buoni sentimenti. James e Bob avranno il loro lieto fine, dimostrando che esistono sempre le seconde possibilità.  

sabato 8 aprile 2017

Film - La cura dal benessere (2017) di Gore Verbinski



Il giovane Lockhart (Dan DeHaan) viene spedito da Wall Street in Svizzera, nel tentativo di riportare in America l’amministratore delegato dell’azienda per cui lavora. Questi però si trova in un centro benessere immerso nelle Alpi, e non ha nessuna intenzione di fare ritorno a casa. Durante la sua visita alla clinica Lockhart ha un incidente che lo costringe a prolungare il suo soggiorno. Durante la sua permanenza all’interno del centro gestito dall’ambiguo dottor Volmer (Jason Isaacs), Lockhart si accorge che le cure somministrate ai pazienti peggiorano le loro condizioni. Si metterà così a indagare e scoprirà a sue spese che uscire vivi dalla clinica non sarà una cosa semplice.
Succede di rado, ma fortunatamente qualche volta succede: un regista di spicco, un nome altisonante della Hollywood che conta decide di dedicarsi alla realizzazione di un film che in qualche modo cerca di abbracciare l’orrorifico in almeno una delle sue centinaia di ramificazioni. Era successo l’anno scorso per Nicholas Windig Refn che aveva realizzato The Neon Demon, e ne era uscito un semi capolavoro; è accaduto quest’anno con Gore Verbinski e il suo La cura dal Benessere. Intendiamoci, non stiamo parlando di un’opera da urlo, un instant cult destinato a rimanere nella memoria collettiva. La cura dal benessere è sicuramente un ottimo film e comunque una ventata di aria fresca in un ambiente troppo frenato da un timore produttivo che mina in principio quella libertà creativa che l’horror necessita.
Gore Verbinski, probabilmente volenteroso di rifarsi dopo il disastro di Lone Ranger, si concede totale libertà per realizzare un thriller orrorifico in cui prevale soprattutto la paranoia. La cura dal benessere è di certo un film ambizioso. Ambizioso per la sua durata di 145 minuti, ambizioso per la costruzione degli ambienti (una clinica più simile all’ospedale psichiatrico di Shutter Island, che ai centri benessere di 8 e ½ e Youth – La giovinezza) e dei costumi, curatissimi, cadaverici e spettrali. Nel suo danzare con la macchina da presa al ritmo di una costante nenia argentiana, sembra proprio che Verbinski si diverta a richiamare quei mostri sacri che hanno contribuito a rendere l’orrore un genere riconosciuto. C’è la paranoia di Polanski, c’è molto dello Scorsese di Shutter Island, e soprattutto c’è tutta l’iconografia del gotico tout court, da i super classici della Universal e della Columbia, fino al gotico made in Italy di Bava e Freda. Esplode, insomma, quella libertà a cui molto spesso i registi aspirano; una libertà che però non si traduce in un’iperbolica follia produttiva. C’è un rispetto della storia, degli stilemi e delle regole del genere, assolutamente onorato da Verbinski.

venerdì 7 aprile 2017

Film - La festa prima delle feste (2016) di Josh Gordon e Will Speck

Una dirigente senza scrupoli (Jennifer Aniston) decide di chiudere una filiale di una compagnia informatica mal gestita dal fratello (T.J. Miller). Questi, con l’aiuto di alcuni colleghi, decide di organizzare una clamorosa festa di Natale nel tentativo di far colpo su un potenziale cliente e chiudere così una trattativa che salverebbe i posti di lavoro. Ma ovviamente nulla andrà come previsto.
La festa prima delle feste, regia di Josh Gordon e Will Speck, è l’emblema dello stato di crisi che sta vivendo la commedia americana. Un genere che non riesce a rinnovarsi e a rilanciarsi, continuando a proporre le solite situazioni e le solite facce. La festa prima delle feste non sarebbe nemmeno un bruttissimo prodotto, ma rimane comunque un film che si inizia a dimenticare quando ancora stanno scorrendo i titoli di coda.
L’ambientazione natalizia è il mero pretesto per inserire il film all’interno del classico christmas movie. È uno specchietto per le allodole: di natalizio il film non ha proprio nulla, ed è piuttosto un banale party movie spostatosi dagli ambienti collegiali all’interno di un’azienda informatica. E già qui crolla il castello di carte: La festa prima delle feste si aggiunge in cima alla pila di film demenziali che sfruttano il tema di una festa come pretesto per ricercare l’eccesso più sfrenato. Porky’s, Animal House, Facciamola Finita e, perché no, The Wolf of Wall Street sono tutte pellicole che La Festa prima delle feste cerca di imitare. È un continuo ricalcare che francamente ha stufato e ormai risulta indigesto. Siamo abbondantemente fuori tempo massimo e anche il cast risulta noioso. Jennifer Aniston e Jason Bateman recitano insieme per la quinta volta e in questo film ristabiliscono la gerarchia di Come ammazzare il capo e vivere felici: lei il boss, lui il dipendente infelice. Mentre T. J. Miller in pratica riprende il ruolo che interpreta nella serie Silicon Valley (quella sì, una serie azzeccata), il resto del cast si impegna senza successo nell’uscire da personaggi altamente stereotipati: c’è il nerd impacciato, l’infoiato, l’orientale di turno, la suora mancata. È una schiera di elementi triti e ritriti che annoiano per la loro prevedibilità e banalità.
  

giovedì 6 aprile 2017

Libro - Bull Mountain di Brian Panowich



Il proibizionismo entrò in vigore negli Stati Uniti nel 1919. Dopo 14 anni venne abolito. È probabilmente la legge che più di ogni altra ha lasciato strascichi nella cultura, nel costume e nella società americana. Basti pensare che nella contea di Moore, in Tennessee, dove viene prodotto il celebre whiskey Jack Daniel’s, la vendita di alcolici è tutt’ora vietata. L’assenza di venditori autorizzati di alcolici in periodo di proibizionismo a contribuito alla nascita della figura del moonshiner, entità mitologica oggi solo appartenente al folklore americano, ma un tempo vero e proprio distillatore clandestino capace di arricchirsi con il contrabbando di alcolici.
Con alle spalle una simile storia, il cinema, la letteratura e la musica (The Moonshiner è un canto folk tradizionale) made in USA hanno spesso trattato il tema della produzione e della vendita illegale di alcolici. Il recentissimo film La legge della notte di Ben Affleck e il romanzo La contea più fradicia del mondo di Matt Bondurant  sono due esempi che dimostrano questo trend.
È esattamente in questo contesto che si inserisce Bull Mountain di Brian Panowich, scritto nel 2015 e appena portato in Italia da NN Editore. Bull Mountain è la storia di due fratelli, Clayton e Halford Burroughs, appartenenti a una famiglia di fuorilegge che con la produzione e il traffico di whiskey di mais, di marijuana e di metamfetamine ha acquisito il controllo totale di Bull Mountain, in Georgia.
Ma mentre Halford continua il mestiere intrapreso da suo padre e da suo nonno, Clayton sposa la bella Kate e decide di allontanarsi da quel tipo di vita diventando sceriffo e venendo ripudiato dal padre e dal fratello. Sulle tracce della famiglia Burroughs, però, si mette l’agente federale Holly, intenzionato a distruggere l’impero costruito nel tempo dai Burroughs. Clayton si vede così costretto a fare da intermediario fra l’agguerrito agente e il Halford che però non ha nessuna intenzione di trattare con un fratello disprezzato.
Bull Mountain è il primo romanzo di Brian Panowich ed è una vera sorpresa. Lo scrittore-pompiere dimostra di saper amalgamare una serie di scenari e linguaggi diversi sapendo adattare al presente un tema molto sfruttato (e talvolta abusato) quale è il contrabbando di alcolici. L’idea di evolvere il traffico di whiskey in marijuana e poi in metamfetamine è geniale; slega la vicenda da un periodo storico ben definito e garantisce al lettore la sensazione del tempo che scorre, cosa rara nella narrativa di oggi. Più che True Detective e Breaking Bad, richiamati dalla bandella libro, Bull Mountain per il modo con cui disegna il rapporto fra due fratelli ai confini della legge ricorda il recente Hell or High Water. Panowich dà l’impressione di attingere dal mondo del cinema, dalle serie tv e dalla letteratura con estrema facilità, rubacchiando qua e là. I fratelli Burroughs, nel loro rimanere eternamente legati alla terra di origine ricordano i personaggi dei romanzi di Wendell Berry, mentre per la loro violenza richiamano l’hard boiled più spinto, a metà fra Mickey Spillane e Elmore Leonard. Bull Mountain è insomma un romanzo ricco: in poco meno di 300 pagine costruisce una lotta fra bene e male e spinge il lettore alla riflessione sull’opportunismo, sul valore della famiglia e sul senso della vendetta.