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sabato 8 aprile 2017

Film - La cura dal benessere (2017) di Gore Verbinski



Il giovane Lockhart (Dan DeHaan) viene spedito da Wall Street in Svizzera, nel tentativo di riportare in America l’amministratore delegato dell’azienda per cui lavora. Questi però si trova in un centro benessere immerso nelle Alpi, e non ha nessuna intenzione di fare ritorno a casa. Durante la sua visita alla clinica Lockhart ha un incidente che lo costringe a prolungare il suo soggiorno. Durante la sua permanenza all’interno del centro gestito dall’ambiguo dottor Volmer (Jason Isaacs), Lockhart si accorge che le cure somministrate ai pazienti peggiorano le loro condizioni. Si metterà così a indagare e scoprirà a sue spese che uscire vivi dalla clinica non sarà una cosa semplice.
Succede di rado, ma fortunatamente qualche volta succede: un regista di spicco, un nome altisonante della Hollywood che conta decide di dedicarsi alla realizzazione di un film che in qualche modo cerca di abbracciare l’orrorifico in almeno una delle sue centinaia di ramificazioni. Era successo l’anno scorso per Nicholas Windig Refn che aveva realizzato The Neon Demon, e ne era uscito un semi capolavoro; è accaduto quest’anno con Gore Verbinski e il suo La cura dal Benessere. Intendiamoci, non stiamo parlando di un’opera da urlo, un instant cult destinato a rimanere nella memoria collettiva. La cura dal benessere è sicuramente un ottimo film e comunque una ventata di aria fresca in un ambiente troppo frenato da un timore produttivo che mina in principio quella libertà creativa che l’horror necessita.
Gore Verbinski, probabilmente volenteroso di rifarsi dopo il disastro di Lone Ranger, si concede totale libertà per realizzare un thriller orrorifico in cui prevale soprattutto la paranoia. La cura dal benessere è di certo un film ambizioso. Ambizioso per la sua durata di 145 minuti, ambizioso per la costruzione degli ambienti (una clinica più simile all’ospedale psichiatrico di Shutter Island, che ai centri benessere di 8 e ½ e Youth – La giovinezza) e dei costumi, curatissimi, cadaverici e spettrali. Nel suo danzare con la macchina da presa al ritmo di una costante nenia argentiana, sembra proprio che Verbinski si diverta a richiamare quei mostri sacri che hanno contribuito a rendere l’orrore un genere riconosciuto. C’è la paranoia di Polanski, c’è molto dello Scorsese di Shutter Island, e soprattutto c’è tutta l’iconografia del gotico tout court, da i super classici della Universal e della Columbia, fino al gotico made in Italy di Bava e Freda. Esplode, insomma, quella libertà a cui molto spesso i registi aspirano; una libertà che però non si traduce in un’iperbolica follia produttiva. C’è un rispetto della storia, degli stilemi e delle regole del genere, assolutamente onorato da Verbinski.