Visualizzazione post con etichetta Film. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Film. Mostra tutti i post

sabato 6 maggio 2017

Film - Fuga da Reuma Park (2016) di Aldo, Giovanni e Giacomo, Morgan Bertacca



Milano, trent’anni nel futuro. Il vecchio Aldo viene portato dai figli (Ficarra e Picone) a Reuma Park, un luna park abbandonato e riadattato come ospizio. Nella casa di riposo, molto simile a un carcere di sicurezza, Aldo incontra Giovanni e Giacomo, suoi compagni di una vita. I tre, con qualche acciacco dovuto all’età ma comunque arzilli, decideranno di lanciarsi in una nuova avventura: fuggire da Reuma Park.
Aldo, Giovanni e Giacomo con Fuga da Reuma Park festeggiano i 25 anni di sodalizio. Il film non è altro che la celebrazione dei personaggi e degli sketch che hanno reso grandi i comici milanesi. Ci Sono Tafazzi, Rolando, Nico il sardo, Pdor, figlio di Kmer, gli Svizzeri… insomma non manca nessuno. Sono questi personaggi, ormai mitologici, che animano il Reuma Park, un surreale ospizio al neon ricavato da un luna park dismesso. È in questo coloratissimo scenario che Aldo, Giovanni e Giacomo costruiscono un sofisticato e articolato discorso metacinematografico: gli anziani Aldo, Giovanni e Giacomo sono personaggi del film, ma anche attori, uomini in carne e ossa che parlano al pubblico rompendo la quarta parete. Il trio conosce la sua audience, propone battute che lo spettatore conosce già, rompe l’inganno del cinema, svela il trucco. È una scelta azzeccata quella del trio, perché la loro festa per i 25 anni di attività è anche e soprattutto un modo per ringraziare un folta schiera di fedelissimi che da sempre li segue al cinema, in tv, dal vivo e sui social.
Fuga da Reuma Park, nonostante sia stato realizzato all’interno di una serie di festeggiamenti per una carriera di successi, ha anche le sembianze tristi di un congedo. La carriera di Aldo, Giovanni e Giacomo può essere spaccata in due: se i successi di pubblico per tutti i loro spettacoli e film sono stati costanti, almeno da Anplagghed in poi si è registrato un oggettivo calo qualitativo. Il cosmo sul comò, La banda dei Babbi Natale e Il ricco, il povero e il maggiordomo perdono sempre nello spontaneo paragone che si fa con le pellicole precedenti (va detto, delle proprie pietre miliari). Con Fuga da Reuma Park si nota la consapevolezza del trio della propria incapacità a rinnovarsi. Il film che celebra i 25 anni di carriera finisce col riproporre solo i personaggi del periodo d’oro e glissa totalmente sulla seconda parte. Sembra insomma un film di resa; un riconoscere con maturità e serenità il proprio calo inesorabile. Noi speriamo di sbagliarci.

venerdì 5 maggio 2017

Film - Guardians (2017) di Sarik Andreasyan



Durante la Guerra Fredda, il governo russo diede vita al progetto Patriot, una squadra speciale composta da superuomini provenienti dalle diverse repubbliche dell’Unione Sovietica. Alla fine della guerra, i membri del team hanno dovuto iniziare a vivere in latitanza nascondendo la propria identità. Quasi trent’anni dopo però, la Russia si trova di fronte a una grossa minaccia e solo i super eroi del vecchio progetto Patriot sono in grado si salvare il Paese.
Oggigiorno, il genere cinematografico che va per la maggiore, sia per numero di film prodotti, sia per risultati al botteghino è quello dedicato ai supereroi di derivazione fumettistica. I progetti a lungo termine di Marvel e Dc Comics hanno conquistato le sale di tutto il mondo, contagiando anche le filmografie e le industrie nazionali. Il bel Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti, è un perfetto esempio di adattamento di un genere straniero al mercato del suo Paese, al suo territorio e alla sua cultura. La Tor Bella Monaca del film colpisce lo spettatore italiano alla pari (se non di più) dei sobborghi di New York di Spider-Man. Guardians (il cui titolo originale è il più esotico Zashchitniki) è un film di supereroi russo, diretto da Sarik Andreasyan, regista già noto negli Stati Uniti per aver diretto American Heist nel 2014, film con Adrien Brody e Hayden Christensen.
Mentre Jeeg Robot si allontanava dai blockbuster americani con l’intenzione di conferire una corposa dose di italianità a ciò che mostrava e raccontava, Guardians cerca in tutti i modi di imitare e ricalcare il cinema della Marvel. Il pubblico occidentale, che al cinema ha sempre visto la Guerra Fredda in modo unilaterale (i cattivi sono sempre i russi) con Guardians poteva scoprire l’altro lato della medaglia. Invece, il film di Andreasyan non prova nemmeno a stravolgere il passato, a fornire un’altra chiave di lettura, un altro risvolto. In sostanza, cultura storia russa non vengono toccate, vengono saltate a piè pari. Il regista punta tutto sugli effetti speciali e sul rispetto degli stilemi del genere: c’è una prima fase in cui vengono mostrati i poteri dei vari protagonisti, una fase in cui entra in scena il cattivo, il combattimento finale. Guardians tecnicamente si dimostra un film corretto, ma fallisce proprio nella storia che racconta; una vicenda banalissima che annoia lo spettatore abituato ormai a ben altro. L’errore di non distaccarsi dai kolossal americani è imperdonabile. Il film finisce per ricordare, e non poco, un b-movie in stile Asylum, una pellicola adatta a fanatici del trash e a una triste distribuzione direct-to-video. Peccato.

sabato 29 aprile 2017

Film Gold - La grande truffa (2016) di Stephen Gaghan



Kenny Wells (Matthew McConaughey) è un uomo che da sempre cerca di trovare la via per il successo. Grazie alla sua perseveranza, Kenny riesce ad avvicinare il geologo Michael Acosta (Edgar Ramirez) e a convincerlo della presenza dell’oro nel sottosuolo della giungla indonesiana. I due iniziano a scavare e sotto terra troveranno il metallo prezioso, ma anche una serie di guai.
Gold – La grande truffa è un film intrinsecamente americano. La corsa all’oro, infatti è, al pari della conquista del west, uno dei miti fondativi della cultura popolare a stelle e strisce. Parlando di corsa all’oro in campo cinematografico il pensiero non può non andare a La febbre dell’oro capolavoro del 1925 di Charlie Chaplin. A quasi un secolo di distanza il film di Chaplin, grazie alle sue gag, continua a essere film godibilissimo e immortale. E se La febbre dell’oro vive ancora grazie al suo protagonista, Gold sta in piedi grazie a Matthew McConaughey, protagonista del film in grado di calamitare l’attenzione dello spettatore per l’intera durata. In sovrappeso e con una calvizie in stato avanzato, l’attore texano dimostra di confermare quella sua volontà di prendere parte solo a progetti stimolanti e impegnativi. Da Dallas Buyer Club (il film che gli è valso il premio Oscar) a oggi, infatti, McConaughey ha lavorato solo in ruoli tutt’altro che semplici dando prova di eccezionale duttilità e flessibilità. Il suo Kenny Wells di Gold è la rappresentazione dell’everyman americano povero e testardo, che non si arrende mai e che alla fine trova la tanto cercata ricchezza (pagandone poi le conseguenze). Kenny Wells, che a tratti potrebbe assomigliare al Jordan Belfort di The Wall of Wall Street, è soprattutto l’incarnazione del American Dream che ciclicamente Hollywood cerca di proporre al pubblico. Gold, ambientato negli anni Ottanta e ispirato (lontanamente s’intende) allo scandalo minerario Bre-X del 1993 è l’ennesima messa in scena del self-made man, dell’uomo costruitosi con le proprie mani e costretto a scontrarsi con mille avversità, in un mercato economico impazzito e corrotto in un decennio folle. Gold cerca di ricostruire quel periodo storico con la leggerezza del caper movie e con la precisione di un biopic. Collocandosi in una zona limbo, sospeso fra il cinema di intrattenimento e quello di ricostruzione storica come mezzo di riflessione sul presente, Gold risulta un film piacevole, ricco e ipnotico; un po’ come la recitazione di McConaughey.

venerdì 28 aprile 2017

Film - Violet & Daisy (2011) di Geoffrey Fletcher



Le adolescenti Violet (Alexi Bledel) e Daisy (Saoirse Ronan) sono killer professioniste. La vita delle giovani donne cambia quando viene assegnato loro un bersaglio all’apparenza facile da eliminare, il signor Michael (James Gandolfini). La missione, infatti,  si rivelerà ricca di complicazioni.
Violet & Daisy è l’opera prima di Geoffrey Fletcher, sceneggiatore e produttore della pellicola, oltre che regista. Risulta difficile collocare Violet & Daisy in una tassonomia di generi cinematografici. Ci troviamo al confine fra la commedia, il film d’azione e il crime movie; insomma siamo di fronte a un film che s’ispira a Tarantino (quello di Jackie Brown, tanto per capirci), non disdegna il Guy Ritchie degli esordi (Lock & Stock e The Snatch), e per rigore formale e sofisticatezza ricorda a tratti i fratelli Coen.
In questo voler a tutti i costi imitare, omaggiare e ricordare i suoi predecessori, Violet & Daisy si dichiara in maniera piuttosto evidente come un ambizioso tentativo del regista Fletcher. Un tentativo che però riesce solamente in parte: se da un punto di vista tecnico e formale il film è ottimo e risulta godibile e originale, il plot si dimostra al di sotto delle aspettative e non riesce mai a scaldare lo spettatore. Manca un intreccio vero e proprio che riesca a fare da collante ai dialoghi grotteschi e surreali scritti dal regista. Fletcher prova a mettere tanta carne al fuoco, a partire dalla fotografia e dai costumi quasi fumettosi. È assente però un reale spessore psicologico dei personaggi e un giusto finale, che risulta inconcludente e che lascia lo spettatore con diversi interrogativi.
Violet & Daisy, che in Italia non ha mai trovato distribuzione, si colloca sicuramente in maniera involontaria, in quella selva oscura costituita dai wannabees, quelle pellicole che aspirano a essere qualcosa di più grande di quello che sono. La pellicola di Fletcher infatti assomiglia a troppi prodotti già visti e non riesce mai a raggiungere una vera e propria indipendenza. Siamo di fronte, insomma, a un altro film che non regge il confronto con i maestri (il sommo Tarantino citato prima) e che si accartoccia su se stesso scivolando velocemente nel dimenticatoio.

sabato 22 aprile 2017

Film - Paterson (2016) di Jim Jarmusch



Paterson, New Jersey. L’autista di autobus Paterson (Adam Driver), ogni mattina esce di casa per andare al lavoro e a fine giornata, sempre alla stessa ora, torna a casa dalla moglie Laura (Golshifteh Farahani) e dal loro cane che tutti i giorni porta a spasso.  La sera poi entra sempre nello stesso locale per bere sempre una birra e chiacchierare con il barista. La vita di Paterson è scandita da una solida e comunissima routine, una normale esistenza che gli dà ispirazione per la sua vera passione: la poesia.
Jim Jarmusch è un regista geniale. Non è certo un’affermazione avventata definire il regista coi basettoni uno degli autori più riconoscibili e particolari che il cinema americano di oggi offre. Paterson è un limpidissimo esempio di come la poesia, forma d’arte basata sull’accostamento di parole che rispettano determinate leggi metriche, sia il tema centrale di un film, prodotto che per definizione si basa invece soprattutto sull’immagine.
Ci sono centinaia di romanzi che raccontano le oneste vite di personaggi qualunque, di agricoltori, di operai, di commercianti le cui vite non subiscono mai scossoni. Ci sono il William Stoner di John Williams, il Frank Bascombe di Richard Ford e il Jayber Crow di Wendell Berry. L’impresa di Jarmusch è stata quella di aver portato una di queste storie in un film e di aver utilizzato la poesia come veicolo di interesse. È una traslazione che può apparire banale, ma che tiene in piedi tutto il film: i sette giorni della settimana di Paterson raccontati da Jarmusch iniziano tutti allo stesso modo, ma prendono tutti una direzione impercettibilmente diversa l’uno dall’altro. Il regista porta l’anafora, figura retorica che consiste nella ripetizione dell’inizio di un verso, dentro lo schermo, nell’immagine. Ogni giorno inizia allo stesso modo, ma procede in maniera impercettibilmente diversa, condizionato dai dialoghi con la gente, dalle conversazioni, dalla vita della città di Paterson che scorre. Ecco, il passaggio geniale: ecco come un film, può raccontare la profondità della vita di un semplice autista di autobus. La poesia si fa sussurro, voce fuori campo e scritta sullo schermo che accompagna Paterson (l’uomo e la città) nella sua vita, nei suoi incontri, nelle sue passeggiate e che si fa strumento perfetto per la creazione di una curiosità; una curiosità necessaria per dare colore al mondo e per formare quel disordine controllato che elimina la noia dalle nostre vite.