giovedì 9 marzo 2017

Film - The Loft (2014) di Erik Van Looy



Cinque amici, tutti sposati e benestanti, condividono un lussuoso loft che utilizzano per consumare rapporti sessuali extra-coniugali. Un giorno però i cinque trovano una ragazza assassinata proprio dentro l’appartamento, che non presenta segni d’effrazione. Essendo gli unici proprietari delle chiavi, i cinque iniziano a sospettare l’uno dell’altro.
The Loft, diretto da Erik van Looy, è un film di poche pretese che cerca di mischiare Dieci piccoli indiani a I soliti sospetti, in una ricerca disperata del colpo di scena che confonde solamente lo spettatore.
Le vicende dei vari personaggi, sono raccontate attraverso continui flashback e salti temporali. Sarebbe anche una scelta azzeccata, quella di attorcigliare la linea temporale e confondere il prima con il dopo, ma quello che manca è una sceneggiatura solida, ed è un peccato perché con 14 milioni di dollari di budget si poteva fare di più.
È inutile ricercare all’interno del film qualsiasi tematica quanto meno interessante: lo sfruttamento del corpo femminile, della prostituzione e il tradimento sono dati che lo spettatore apprende senza poterli sviscerare: non siamo in un film di denuncia sociale; questo è un thriller a orologeria che non vede l’ora di sorprendere con i suoi colpi di scena che per quanto sono annunciati finiscono con l’essere prevedibili.
The Loft è un film uscito male, che ha negli ambienti ultramoderni e borghesi il suo unico punto di forza. Troppo poco per un film che vorrebbe incollarti alla poltrona, ma che invece annoia per tutta la sua durata.

mercoledì 8 marzo 2017

Film - La luce sugli oceani (2016) di Derek Cianfrance




Dopo la prima guerra mondiale, Tom Sherbourne (Michael Fassbender), turbato dagli orrori del conflitto, chiede di essere nominato guardiano di un faro di un’isoletta tra l’oceano indiano e l’oceano antartico. Un giorno, assieme alla moglie Isabel (Alicia Vikander), trova una barca a remi naufragata con a bordo il cadavere di un uomo e una bimba che piange. Tom, scosso dall’accaduto e ligio al suo dovere di guardiano vorrebbe denunciare l’accaduto, ma Isabel, con già due aborti spontanei alle spalle, riesce a convincere il marito a tenere la bimba e crescerla come fosse loro figlia. Non molto tempo dopo però, la coppia fa la conoscenza di Hannah Roennfeldt (Rachel Weisz) madre naturale della piccola, risoluta a riavere indietro la bambina che credeva morta.
La luce sugli oceani, scritto e diretto da Derek Cianfrance, è un melodramma in piena regola, un condensato di situazioni e sentimenti che ciclicamente Hollywood si impegna a realizzare. Purtroppo La luce sugli oceani è un film mediocre. Purtroppo perché le musiche di Alexandre Desplat sono perfette e sposano alla perfezione i movimenti di camera di Cianfrance, la fotografia di Adam Arkapaw e i volti di Fassbender, della Vikander e della Weisz. Purtroppo perché è un film tecnicamente corretto, sontuoso per la ricerca e ricostruzione degli ambienti e dei costumi, ma troppo impegnato nella ricerca ossessiva della lacrima, dell’emozione e di un sentimento che alla fine risulta più stucchevole che spontaneo. Il dramma di una coppia che si vede portar via la figlia dalla madre naturale vorrebbe essere il suggerimento allo spettatore per una analisi coscienziosa su cosa voglia dire veramente prendersi cura di una persona. È uno spunto di riflessione che si può cogliere nel personaggio di Fassbender, uomo responsabile in preda ai sensi di colpa, la cui crisi interiore però è sepolta da Cianfrance da una coltre fatta di lettere d’amore, di lacrime, di lunghi primi piani; la piccola Lucy, sorta di MacGuffin della vicenda, diventa un oggetto, mentre l’essere genitore sembra più un possedere che un accudire.
È genitore colui che crea o colui che cresce il bambino? Ecco, La luce sugli oceani ha l’ambizione di voler suggerire un simile quesito, a cui però non trova risposta e nemmeno si impegna per cercarne una. Quello che fa, per i suoi eterni 133 minuti di durata, è voler far piangere il pubblico attraverso le interpretazioni dei suoi tre attori principali, colonne portanti di un film claudicante in più punti.

Libro - Il complotto contro l'America di Philip Roth



Stati Uniti. Alle elezioni presidenziali del 1940 Franklin Delano Roosevelt, candidato per la terza volta consecutiva deve fronteggiare il repubblicano Lindbergh, eroe della trasvolata sull’Atlantico del 1927, fervido antisemita e filonazista. A sorpresa è proprio quest’ultimo a vincere. Da questo momento gli Stati Uniti, non ancora intervenuti nel conflitto bellico che sta distruggendo l’Europa, forniscono il proprio appoggio alla Germania nazista di Hitler. L’incubo dell’antisemitismo e la paranoia che travolgono il Paese è raccontato attraverso una famiglia ebrea di Newark, la famiglia Roth.
Il complotto contro l’America appartiene pienamente al genere ucronico, quel genere fantastico basato sulla premessa che la storia del mondo abbia seguito un corso alternativo rispetto a quello reale. Philip Roth, però, al contrario di Robert Harris in Fatherland e Philp K. Dick in La svastica sul sole, si allontana dalla fantapolitica vera e propria, e utilizza l’espediente storico solamente come input per raccontare la quotidianità, radicalmente stravolta, delle persone che animano il romanzo. Il complotto contro l’America è un piano dall’inclinazione quasi impercettibile, in cui il popolo ebreo americano scivola lentamente nello stupore per un evento inaspettato ed eccezionale, nel raccapriccio e sdegno,  nella paura di essere in qualche modo toccato, nella paranoia collettiva, e poi nella violenza. Roth riesce a cogliere ogni sfumatura dell’agire umano, condizionato inesorabilmente dagli eventi che lo tartassano. Con l’ascesa di Lindbergh, traballano i principi di egualitarismo e di democrazia del Paese, le certezze di una nazione che si dimostrano eccessivamente vulnerabili.
Il romanzo, uscito nel 2004, vuole essere una velenosa allegoria di ciò che gli Stati Uniti sono diventati dopo l’11 settembre sotto la presidenza Bush. Un Paese in preda alla paranoia, alla paura del complotto, alla xenofobia. Una situazione che, paradossalmente, si è ricreata con l’elezione di Donald Trump: la politica antisemita perseguita da Lindbergh nel romanzo è perfettamente simmetrica alle dichiarazioni di Trump contro il popolo musulmano e sull’ipotesi, che sta assumendo sempre più concretezza, di costruire un muro al confine con il Messico.
Come il Presidente Lindbergh, ma sfacciatamente più xenofobo, anche Trump si dimostra una clamorosa eccezione sullo scacchiere politico nazionale e non, che si riflette nella vita quotidiana del cittadino. Il complotto contro l’America, dimostrandosi un romanzo paurosamente attuale, è un’immensa metafora che ha l’obiettivo di riflettere sulla potenza che sono gli Stati Uniti a livello globale, il Paese delle opportunità e dei sogni, condizionato però dalla fragilità del suo sistema democratico, oggi come non mai, a rischio di derive eccessivamente autoritarie.

martedì 7 marzo 2017

Film - Autopsy (2016) di André Øvredal



Grantham, piccola cittadina dello stato della Virginia. Sul luogo di un duplice omicidio, la polizia rinviene anche un cadavere di una ragazza. Non sapendo il nome della donna, la polizia la chiama Jane Doe (John Doe è, per il mondo anglosassone, ciò che Mario Rossi è per noi italiani). Il suo corpo giunge all’obitorio, dove Tommy Tilden (Brian Cox) e suo figlio Austin (Emile Hirsch) vengono incaricati di eseguire l’autopsia per stabilire le cause della morte.
Il cadavere della ragazza presenta polsi e caviglie fratturati, occhi grigi e lingua recisa, ma nessun segno evidente di violenza e ecchimosi. E allora chi o che cosa l’ha uccisa?
Autopsy, primo lungometraggio in lingua inglese del norvegese André Øvredal, è un horror da camera ambientato all’interno di un obitorio, luogo perfetto per mantenere costantemente elevata la tensione. Brian Cox e Emile Hirsch sono i soli protagonisti del film, capaci di caricarsi il peso della pellicola sulle spalle, riuscendo, grazie anche a dinamiche famigliari previste da una sceneggiatura intelligente e compatta, a palesare la paranoia e la psicosi che permettono l’immedesimazione del pubblico.
Il paranoid horror del regista norvegese, inoltre, ha il merito di esplorare la carne umana del corpo di Jane Doe (l’inerte Olwen Catherine Kelly) con un’attitudine inquieta e inquietante, cercando con ostinazione la mostruosità nelle viscere umane.  In Autopsy esplode quella pulsione a vedere l’impossibile in primissimo piano, senza tagli o mezze misure, in cui il corpo umano si fa magnete che inesorabilmente calamita l’attenzione dello spettatore. La genialità di  Øvredal sta però nel prendere le distanze da quel torture porn molto in voga dieci anni fa, e soprattutto, contenendo le sfumature splatter, nell’allontanarsi anche da una matrice d’exploitation molto in voga, anche in Italia, tra gli anni Settanta e Ottanta. Autopsy riesce a mischiare il thriller, l’horror paranoico, il sangue (limitato, ma comunque presente) e il soprannaturale, in un ambiente chiuso e piccolo, un obitorio che si trasforma in una casa degli orrori dal sapore gotico.
Autopsy è un riuscitissimo pastiche, un’operazione che dimostra che il genere horror è vivo e funziona, nonostante la sua natura borderline che lo pone ai margini dell’industria cinematografica americana e mondiale, e che al tempo stesso lascia estrema libertà agli addetti ai lavori.