martedì 18 aprile 2017

Libro - Una stella di nome Henry di Roddy Doyle



Henry Smart nasce nella Dublino di inizio Novecento. Scappato di casa assieme al fratello Victor, Henry vagabonda tra i quartieri più poveri e malfamati di Dublino e vive in prima persona la storia irlandese: dalla Rivolta di Pasqua del 1916, ai sindacalisti del Sinn Féin, fino alla guerra di indipendenza del 1920-21, Hnery avrà il modo di incontrare personaggi come James Connolly e Michael Collins.
Una stella di nome Henry è il primo capitolo di una trilogia che lo scrittore irlandese Roddy Doyle ha dedicato alla storia del suo Paese. Come Joseph O’Connor e Colum McCann, anche Doyle dimostra di possedere quell’attaccamento alla patria tipico degli scrittori irlandesi. In Italia, ad esempio, al giorno d’oggi non esistono scrittori popolari attaccati alla nostra storia e alla nostra bandiera. E probabilmente per questo motivo Una stella di nome Henry non è un romanzo facile, tutt’altro. Ora, non è questo il luogo per lezioni di storia contemporanea. Diciamo solo che è consigliabile, prima della lettura di Una stella di nome Henry, una ripassata wikipediana sulla storia irlandese per riprendere (o per approcciare per la prima volta) i fatti narrati da Doyle e evitare quindi di perdersi il senso del romanzo. La struttura è classica e molto usata: il racconto della vita di un personaggio di fantasia all’interno di un contesto storico ben definito è l’espediente utilizzato alla perfezione dallo scrittore irlandese.
Rimane il dubbio sul senso di pubblicare un libro come questo in Italia. Probabilmente l’obiettivo era quello di sfruttare il nome dello scrittore, amato da adulti e bambini. In ogni caso pubblicare un libro di questo tipo nel nostro paese è stato rischioso. Rischioso perché il lettore è chiamato a un compito impegnativo: è costretto a prepararsi sull’argomento se vuole evitare quel naturale spaesamento che si incontra in letture di questo tipo.
Ma quindi Una stella di nome Henry è un buon libro? . È difficile per uno scrittore confermarsi ad alti livelli in eterno. Soprattutto è difficile sfornare capolavori in sequenza come stava facendo Roddy Doyle. La trilogia di Barrytown  (diventata da poco una tetralogia) è un qualcosa di magico, di raro. Una stella di nome Henry invece è un libro sufficiente che però non scalda mai il cuore. Ed è un peccato perché Roddy Doyle è uno di quei pochi che è in grado di farlo.

domenica 16 aprile 2017

Top 7 - I migliori film d'azione tra anni Ottanta e Novanta



Il costante sviluppo della tecnologia ha cambiato, nel corso degli anni e dei decenni il modo di fare cinema. Il flusso continuo di nuovi effetti speciali ha permesso al cinema di viaggiare nel tempo e nello spazio, di creare nuovi mostri e soprattutto di esplorare ciò che comunemente definiamo fantastico. Non serve certo un colto cinefilo per accorgersi della differenza tra un Metropolis di Fritz Lang (datato 1927) e un qualsiasi blockbuster della Hollywood di oggi.
Ecco, noi dell’Ignorante però ormai da diverso tempo abbiamo cominciato a rifiutare questo uso scriteriato dell’effettistica in un genere a noi tanto caro: l’action. L’action è il genere che meglio va a braccetto con l’appellativo tutto italiano di americanata, espressione nata proprio per definire quelle pellicole (solitamente, ma non per forza statunitensi) che si distinguono per una sorta di coattezza, di clamorosità in bilico fra il trash e il kitsch. Per intenderci Vin Diesel che salta dai ponti con le auto nella saga di Fast & Furious è coatto; Bruce Willis che distrugge taxi e tir a New York in Die Hard 3 non lo è. Quello che differenzia i due casi è proprio l’uso degli effetti speciali: un vero abuso nel primo caso; un utilizzo misurato e corretto nel secondo.
Ed è per questo motivo che questa settimana abbiamo voluto tracciare una linea di separazione tra l’action vero, bello e godibile e quello più burino e tamarro. Abbiamo raccolto i sette (mai come in questo caso la scelta è stata tanto ardua) film d’azione simbolo degli anni Ottanta e Novanta, decenni d’oro per il genere.
7 – Air Force One (1997). Harrison Ford è il presidente degli Stati Uniti. Durante un volo viene preso in ostaggio sull’Air Force One da Gary Oldman. Ford, però, è anche un ex berretto verde (o qualcosa di simile), e non si lascerà piegare dai terroristi. Siamo qualche spanna sopra i recenti Attacco al potere  e White House Down – Sotto assedio.
6 – Face/Off  - Due facce di un assassino (1997). Sean Archer e Castor Troy sono un agente dell’FBI e un terrorista che da tempo giocano a rincorrersi e inseguirsi. A seguito di un intervento di chirurgia plastica all’avanguardia i due si scambiano le facce e assumono così uno l’identità dell’altro. Alla regia c’è John Woo, un maestro. I due protagonisti sono John Travolta e Nicolas Cage. È una pioggia di proiettili.
5 – Rambo 2 – La vendetta (1985). Ora, la saga di John Rambo è sacra. Abbiamo scelto il secondo film perché il primo di azione pura ha veramente poco. È piuttosto un dramma intenso sui reduci del Vietnam, un film che ancora oggi forse è sottovalutato. Nel secondo capitolo invece, l’unica cosa veramente intensa è la mascella di Stallone. Cult assoluto.
4 – Speed (1994). Trama semplice. Su un bus c’è una bomba innescata che esploderà se la velocità del mezzo scenderà al di sotto delle 50 miglia orarie. L’incaricato per sventare il pericolo è Keanu Reeves. Negli anni Novanta bastava poco per tirare fuori film con i controcazzi.
3 – L’ultimo boy scout (1991). Bruce Willis è un investigatore privato che si trova a indagare su un caso di omicidio all’interno del mondo del football. Ad aiutarlo c’è l’ex giocatore Damon Wayans. Oltre che essere un omaggio al noir degli anni Quaranta e Cinquanta, L’ultimo boy scout è un condensato di auto distrutte, esplosioni e inseguimenti. Alla regia c’è Tony Scott, non esattamente uno qualunque.
2 – Arma letale (1987). La saga di Arma letale rasenta la perfezione. Intendiamoci, abbiamo scelto solo il primo dei quattro capitoli perché altrimenti la top 7 sarebbe stata un inutile duopolio. Buddy movie, azione, colonne sonore, dialoghi e scene iconiche. è tutto maledettamente perfetto. Cioè, in quale altra saga avete visto una bomba sotto la tazza del gabinetto?
1 – Die Hard (1988). Stesso discorso fatto per Arma Letale. La saga di Die Hard, per noi dell’Ignorante è composta da tre film. Arma letale e Die Hard avrebbero occupato tutte e sette le posizioni della graduatoria; non ci sembrava giusto. Scegliamo il primo perché in fondo è quello che preferiamo; perché la canotta di Bruce Willis ce la sogniamo ancora la notte; perché tutti almeno una volta nella vita abbiamo desiderato di strisciare nei condotti dell’aria con un mitra in mano.

sabato 15 aprile 2017

Film - The Survivalist (2015) di Stephen Fingleton



L’esaurimento delle risorse energetiche ha portato l’umanità a un passo dall’estinzione. In questo scenario apocalittico, un sopravvissuto vive isolato in un bosco, coltivando un piccolo orticello che difende dai predoni . Un giorno però la vita del survivalist è sconvolta dall’arrivo di due donne, madre e figlia, stremate dalla fame e dalla stanchezza. L’uomo dovrà scegliere se aiutare le due donne stravolgendo il suo ferreo regolamento.
The Survivalist è l’opera prima del nord irlandese Stephen Fingleton, interessante re-invenzione del genere post-apocalittico che riduce gli scenari distopici di metropoli distrutte e deserte, e popolazioni decimate a una semplice infografica iniziale e a un bosco in cui si sviluppa l’intera vicenda. L’impalcatura minimalista del film, novità all’interno di un filone che fatica a rinnovarsi, ha però il difetto di contagiare anche la sceneggiatura, non all’altezza delle idee, ottime, del regista. I dialoghi sono ridotti all’osso e anche l’azione, in diversi momenti della pellicola è piuttosto claudicante.
Lo stupore per l’impostazione iniziale che indirizza il film svanisce presto e alla fine a prevalere è una certa noia. L’apocalisse e il destino della società, associati alla superiorità della natura, sono temi soltanto sussurrati e sostituiti dalla lotta quotidiana alla sopravvivenza, un crudo realismo fatto di silenzi, fatica e poco altro. C’è una messa in scena della regressione più totale dell’essere umano a bestia, animale feroce pronto a uccidere pur di sopravvivere.
The Survivalist vince come esperimento: il regista riesce a portare a termine un film fantascientifico post-apocalittico senza l’uso di alcun effetto speciale e con un budget minimo. Impresa questa non da poco. Mancano però i giusti guizzi in una sceneggiatura troppo piatta, le giuste impennate che incollano lo spettatore alla poltrona. Risulta alla fine difficile giudicare positivamente una pellicola così rigorosa, scarna e minimalista; un film che purtroppo non riesce a raggiungere una piena sufficienza.

venerdì 14 aprile 2017

Film - Remember (2015) di Atom Egoyan



Zev Guttmann (Christopher Plummer) è un anziano ebreo affetto da demenza senile che trascorre le sue giornate in una clinica privata in compagnia di Max (Martin Landau), amico fedele con cui ha condiviso la terribile esperienza dei campi di concentramento. Max, costretto sulla sedia rotelle, convince Zev di vendicare loro e le loro famiglie trucidate a Auschwitz rintracciando il loro assassino, da tempo nascosto negli Stati Uniti sotto falso nome. Nonostante la malattia, Zev parte in un viaggio fra America e Canada che lo porterà davanti al suo aguzzino, ma anche a una sconvolgente verità.
Atom Egoyan è un regista che da tempo sforna pellicole che si collocano sulle orbite più esterne dell’industria mainstream, ma capaci di incatenarsi fra loro per l’insistenza con cui certi temi vengono proposti. I concetti cari al regista, quasi sempre sceneggiatore dei suoi film, sono quelli della conservazione della memoria, della ricerca delle radici familiari, e dell’importanza dell’identità all’interno di un collettivo.
Con Remember, Egoyan si conferma vero autore capace negli anni di confermarsi coerente con se stesso portando avanti un ben definito discorso filmico. Remember è un film denso, pieno zeppo di significati e tematiche. C’è davvero un po’ di tutto: c’è l’Olocausto, trattato da lontano, al giorno d’oggi; c’è la dignità dell’uomo anziano, che vede scomparire lentamente la salute fisica e mentale; e c’è poi soprattutto il puzzle game costruito dal regista, un gioco di incastri nolaniani che ingannano e divertono lo spettatore. C’è un raffinato discorso sulla memoria e la sua alterazione come adattamento richiesto dalla coscienza per lavare via un passato putrido, da dimenticare. Remember è un film storico che si muove come un road movie e termina come un thriller psicologico. Una grande prova registica e, ancor di più, attoriale con un immenso Christopher Plummer, capace con il suo volto segnato e gli occhi gonfi, di vestire i panni di un uomo dal terribile passato e da un presente intermittente, con una mente ormai in balia del tempo che inesorabilmente corre e scappa.

giovedì 13 aprile 2017

Film - Lion - La strada verso casa (2016) di Garth Davis



Saroo è un bambino indiano di 5 anni. Un giorno si addormenta su un treno e si risveglia nella caotica Calcutta. Trovato dalle autorità, Saroo non riesce a spiegare la sua provenienza. Finisce così prima in un istituto e poi in Tasmania, adottato da una coppia australiana. Più di vent’anni dopo, ormai cresciuto e perfettamente inserito nella società australiana, Saroo inizia a covare il desiderio di poter rivedere la sua famiglia naturale. Grazie a Google Earth comincia così delle complicate ricerche, nella speranza di rintracciare il suo villaggio e quindi la sua famiglia.
È pratica piuttosto comune a Hollywood, quella di riassumere una nazione intera nelle facce e nei corpi di pochissimi attori selezionati: Javier Bardem e Penelope Cruz rappresentano la Spagna, Jean Reno la Francia; se serve un tedesco il primo a essere chiamato è Daniel Bruhl. Ecco, il rappresentante dell’India è Dev Patel, protagonista (o quasi) di Lion – La strada verso casa, primo lungometraggio di Garth Davis.
È un ottimo film questo Lion. Pur raccontando una storia il cui finale è intuibile fin dai primi minuti, riesce a fuggire da quella retorica che sporca sempre film di questo tipo. C’è una cura nei dettagli che eleva Lion a un livello più alto: c’è una fotografia curatissima che restituisce squarci di India di crudele bellezza. C’è una colonna sonora sontuosa, potente che si fa portatrice di significato, che mette pathos e spinge al climax. Lion potrebbe apparire come il classico film da premi, da statuette e tappeti rossi. La storia di Saroo, incredibilmente vera, non richiedeva alcun adattamento in fase di scrittura: c’era il rischio di esagerare, di scadere nel patetico. Ed è qui che Lion diventa un ottimo film: non si prolunga eccessivamente sul suo finale scontato e risaputo, ma spinge invece nella costruzione iniziale dei personaggi, calcando la mano più sull’inizio della vicenda con Saroo bambino (interpretato da Sunny Pawar) che sull’ossessiva ricerca della seconda parte. Se negli anni abbiamo visto scadenti biopic e drammoni strappalacrime che puntavano solo al sensazionalismo, Lion è la dimostrazione che si può fare ottimo cinema partendo da una vicenda (comunque vera) che pone i sentimenti davanti a tutto.