In seguito al divorzio con il
marito Tom, Rachel trova rifugio nell’alcol. Durante il suo girovagare senza
meta, dal vagone di un treno, Rachel spia l’ex marito, ora felicemente sposato
con Anna. È in queste occasioni che Rachel osserva i vicini di casa di Tom, i
coniugi Megan e Scott, incarnazione della coppia perfetta e dell’amore vero. Un
giorno però, Rachel scorge Megan in compagnia di un altro uomo e, identificando
la fine del proprio matrimonio con il tradimento della donna, perde la testa. Quando
però si riprende, Megan è scomparsa e Rachel non riesce a ricordare se è stata
testimone oppure responsabile della sua sparizione.
Tate Taylor, mestierante di
Hollywood, dirige La Ragazza del treno,
trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Sally Hawkins, bestseller
del 2015. Il film di Taylor non riesce a prendere le giuste distanze dal
romanzo e anzi insiste su una didascalica e fastidiosa voce fuori campo che a
tutti i costi vuole richiamare le pagine del libro della Hawkins. Non era
facile, va detto, riuscire a rendere in immagini i densi pensieri e la
psicologia dei personaggi. Se il romanzo aveva nei suoi punti di forza gli ottimi
approfondimenti dei caratteri e il mantenimento della tensione costante, il
film prova a rielaborare il thriller psicologico con analessi e prolessi, salti
temporali in fin dei conti non necessari e non richiesti; si arrovella nel
tentativo di trarre lo spettatore in inganno, di seminare dei dubbi sull’innocenza
di Rachel, ma la detective story è
scarica in partenza e lo spettatore
sbadiglia.
La ragazza del treno è un film che arriva tardi, non riesce a
rielaborare i generi del crime e del
thriller classico, e si salva solo per l’accortezza del regista, passando dall’ambientazione
londinese del romanzo a quella newyorkese del film, di restituire atmosfere
cupe che suggeriscono e in qualche modo coprono la bidimensionalità dei
personaggi. Troppo poco; per il successo del romanzo e per l’aspettativa
creatasi già nelle fasi di pre-produzione, La
ragazza del treno forse meritava un regista più esperto e navigato, a metà
fra David Fincher e Christopher Nolan.
E per fortuna che ha trovato in
Emily Blunt il volto femminile perfetto
per rappresentare una donna distrutta dall’alcolismo, con la memoria a
brandelli e un’autostima da ricostruire. Da ricostruire come la sceneggiatura,
a metà fra il dramma sentimentale al femminile e la mystery story, incapace di creare tensione e suspense attorno all’identità
dell’assassino.