venerdì 10 marzo 2017

Film - La ragazza del treno (2016) di Tate taylor



In seguito al divorzio con il marito Tom, Rachel trova rifugio nell’alcol. Durante il suo girovagare senza meta, dal vagone di un treno, Rachel spia l’ex marito, ora felicemente sposato con Anna. È in queste occasioni che Rachel osserva i vicini di casa di Tom, i coniugi Megan e Scott, incarnazione della coppia perfetta e dell’amore vero. Un giorno però, Rachel scorge Megan in compagnia di un altro uomo e, identificando la fine del proprio matrimonio con il tradimento della donna, perde la testa. Quando però si riprende, Megan è scomparsa e Rachel non riesce a ricordare se è stata testimone oppure responsabile della sua sparizione.
Tate Taylor, mestierante di Hollywood, dirige La Ragazza del treno, trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Sally Hawkins, bestseller del 2015. Il film di Taylor non riesce a prendere le giuste distanze dal romanzo e anzi insiste su una didascalica e fastidiosa voce fuori campo che a tutti i costi vuole richiamare le pagine del libro della Hawkins. Non era facile, va detto, riuscire a rendere in immagini i densi pensieri e la psicologia dei personaggi. Se il romanzo aveva nei suoi punti di forza gli ottimi approfondimenti dei caratteri e il mantenimento della tensione costante, il film prova a rielaborare il thriller psicologico con analessi e prolessi, salti temporali in fin dei conti non necessari e non richiesti; si arrovella nel tentativo di trarre lo spettatore in inganno, di seminare dei dubbi sull’innocenza di Rachel, ma la detective story è scarica in partenza  e lo spettatore sbadiglia.
La ragazza del treno è un film che arriva tardi, non riesce a rielaborare i generi del crime e del thriller classico, e si salva solo per l’accortezza del regista, passando dall’ambientazione londinese del romanzo a quella newyorkese del film, di restituire atmosfere cupe che suggeriscono e in qualche modo coprono la bidimensionalità dei personaggi. Troppo poco; per il successo del romanzo e per l’aspettativa creatasi già nelle fasi di pre-produzione, La ragazza del treno forse meritava un regista più esperto e navigato, a metà fra David Fincher e Christopher Nolan.
E per fortuna che ha trovato in Emily Blunt il volto femminile perfetto  per rappresentare una donna distrutta dall’alcolismo, con la memoria a brandelli e un’autostima da ricostruire. Da ricostruire come la sceneggiatura, a metà fra il dramma sentimentale al femminile e la mystery story, incapace di creare tensione e suspense attorno all’identità dell’assassino.

giovedì 9 marzo 2017

Film - The Loft (2014) di Erik Van Looy



Cinque amici, tutti sposati e benestanti, condividono un lussuoso loft che utilizzano per consumare rapporti sessuali extra-coniugali. Un giorno però i cinque trovano una ragazza assassinata proprio dentro l’appartamento, che non presenta segni d’effrazione. Essendo gli unici proprietari delle chiavi, i cinque iniziano a sospettare l’uno dell’altro.
The Loft, diretto da Erik van Looy, è un film di poche pretese che cerca di mischiare Dieci piccoli indiani a I soliti sospetti, in una ricerca disperata del colpo di scena che confonde solamente lo spettatore.
Le vicende dei vari personaggi, sono raccontate attraverso continui flashback e salti temporali. Sarebbe anche una scelta azzeccata, quella di attorcigliare la linea temporale e confondere il prima con il dopo, ma quello che manca è una sceneggiatura solida, ed è un peccato perché con 14 milioni di dollari di budget si poteva fare di più.
È inutile ricercare all’interno del film qualsiasi tematica quanto meno interessante: lo sfruttamento del corpo femminile, della prostituzione e il tradimento sono dati che lo spettatore apprende senza poterli sviscerare: non siamo in un film di denuncia sociale; questo è un thriller a orologeria che non vede l’ora di sorprendere con i suoi colpi di scena che per quanto sono annunciati finiscono con l’essere prevedibili.
The Loft è un film uscito male, che ha negli ambienti ultramoderni e borghesi il suo unico punto di forza. Troppo poco per un film che vorrebbe incollarti alla poltrona, ma che invece annoia per tutta la sua durata.

mercoledì 8 marzo 2017

Film - La luce sugli oceani (2016) di Derek Cianfrance




Dopo la prima guerra mondiale, Tom Sherbourne (Michael Fassbender), turbato dagli orrori del conflitto, chiede di essere nominato guardiano di un faro di un’isoletta tra l’oceano indiano e l’oceano antartico. Un giorno, assieme alla moglie Isabel (Alicia Vikander), trova una barca a remi naufragata con a bordo il cadavere di un uomo e una bimba che piange. Tom, scosso dall’accaduto e ligio al suo dovere di guardiano vorrebbe denunciare l’accaduto, ma Isabel, con già due aborti spontanei alle spalle, riesce a convincere il marito a tenere la bimba e crescerla come fosse loro figlia. Non molto tempo dopo però, la coppia fa la conoscenza di Hannah Roennfeldt (Rachel Weisz) madre naturale della piccola, risoluta a riavere indietro la bambina che credeva morta.
La luce sugli oceani, scritto e diretto da Derek Cianfrance, è un melodramma in piena regola, un condensato di situazioni e sentimenti che ciclicamente Hollywood si impegna a realizzare. Purtroppo La luce sugli oceani è un film mediocre. Purtroppo perché le musiche di Alexandre Desplat sono perfette e sposano alla perfezione i movimenti di camera di Cianfrance, la fotografia di Adam Arkapaw e i volti di Fassbender, della Vikander e della Weisz. Purtroppo perché è un film tecnicamente corretto, sontuoso per la ricerca e ricostruzione degli ambienti e dei costumi, ma troppo impegnato nella ricerca ossessiva della lacrima, dell’emozione e di un sentimento che alla fine risulta più stucchevole che spontaneo. Il dramma di una coppia che si vede portar via la figlia dalla madre naturale vorrebbe essere il suggerimento allo spettatore per una analisi coscienziosa su cosa voglia dire veramente prendersi cura di una persona. È uno spunto di riflessione che si può cogliere nel personaggio di Fassbender, uomo responsabile in preda ai sensi di colpa, la cui crisi interiore però è sepolta da Cianfrance da una coltre fatta di lettere d’amore, di lacrime, di lunghi primi piani; la piccola Lucy, sorta di MacGuffin della vicenda, diventa un oggetto, mentre l’essere genitore sembra più un possedere che un accudire.
È genitore colui che crea o colui che cresce il bambino? Ecco, La luce sugli oceani ha l’ambizione di voler suggerire un simile quesito, a cui però non trova risposta e nemmeno si impegna per cercarne una. Quello che fa, per i suoi eterni 133 minuti di durata, è voler far piangere il pubblico attraverso le interpretazioni dei suoi tre attori principali, colonne portanti di un film claudicante in più punti.

Libro - Il complotto contro l'America di Philip Roth



Stati Uniti. Alle elezioni presidenziali del 1940 Franklin Delano Roosevelt, candidato per la terza volta consecutiva deve fronteggiare il repubblicano Lindbergh, eroe della trasvolata sull’Atlantico del 1927, fervido antisemita e filonazista. A sorpresa è proprio quest’ultimo a vincere. Da questo momento gli Stati Uniti, non ancora intervenuti nel conflitto bellico che sta distruggendo l’Europa, forniscono il proprio appoggio alla Germania nazista di Hitler. L’incubo dell’antisemitismo e la paranoia che travolgono il Paese è raccontato attraverso una famiglia ebrea di Newark, la famiglia Roth.
Il complotto contro l’America appartiene pienamente al genere ucronico, quel genere fantastico basato sulla premessa che la storia del mondo abbia seguito un corso alternativo rispetto a quello reale. Philip Roth, però, al contrario di Robert Harris in Fatherland e Philp K. Dick in La svastica sul sole, si allontana dalla fantapolitica vera e propria, e utilizza l’espediente storico solamente come input per raccontare la quotidianità, radicalmente stravolta, delle persone che animano il romanzo. Il complotto contro l’America è un piano dall’inclinazione quasi impercettibile, in cui il popolo ebreo americano scivola lentamente nello stupore per un evento inaspettato ed eccezionale, nel raccapriccio e sdegno,  nella paura di essere in qualche modo toccato, nella paranoia collettiva, e poi nella violenza. Roth riesce a cogliere ogni sfumatura dell’agire umano, condizionato inesorabilmente dagli eventi che lo tartassano. Con l’ascesa di Lindbergh, traballano i principi di egualitarismo e di democrazia del Paese, le certezze di una nazione che si dimostrano eccessivamente vulnerabili.
Il romanzo, uscito nel 2004, vuole essere una velenosa allegoria di ciò che gli Stati Uniti sono diventati dopo l’11 settembre sotto la presidenza Bush. Un Paese in preda alla paranoia, alla paura del complotto, alla xenofobia. Una situazione che, paradossalmente, si è ricreata con l’elezione di Donald Trump: la politica antisemita perseguita da Lindbergh nel romanzo è perfettamente simmetrica alle dichiarazioni di Trump contro il popolo musulmano e sull’ipotesi, che sta assumendo sempre più concretezza, di costruire un muro al confine con il Messico.
Come il Presidente Lindbergh, ma sfacciatamente più xenofobo, anche Trump si dimostra una clamorosa eccezione sullo scacchiere politico nazionale e non, che si riflette nella vita quotidiana del cittadino. Il complotto contro l’America, dimostrandosi un romanzo paurosamente attuale, è un’immensa metafora che ha l’obiettivo di riflettere sulla potenza che sono gli Stati Uniti a livello globale, il Paese delle opportunità e dei sogni, condizionato però dalla fragilità del suo sistema democratico, oggi come non mai, a rischio di derive eccessivamente autoritarie.