La sedicenne vegetariana Justine
arriva al college per diventare veterinaria. La ragazza, molto timida, è
vittima di una serie di episodi di nonnismo, tipici per gli studenti del primo
anno. In questo vero e proprio rito di iniziazione, però, è compreso l’assaggio
di un rene crudo di coniglio. La scoperta della carne per Justine è
sconvolgente. L’iniziale semplice curiosità si sviluppa in vero e proprio
desiderio; un’incontrollabile voglia che sfocerà in un brutale cannibalismo.
Pur collocandosi nelle zone più
estreme dei giudizi critici ortodossi, il genere orrorifico mantiene da sempre
intatta quella caratteristica di saper fotografare la società e di saper
iperbolizzarne i difetti, le sfumature. Ecco, Raw di Julie Ducournau, presentato al Festival di Cannes del 2016,
chiama in causa quel fanatismo proprio del recente movimento vegano (e animalista)
che sta raccogliendo sempre più consensi.
Raw parte da
questa realtà ma non si limita a questo: nell’esistenza di Justine e dei suoi
coetanei è evidente la mancanza di un’autorità, di un modello di riferimento.
Non ci sono insegnanti, non c’è polizia, i genitori sono lontani persi nei
propri lavori. Il vuoto di questi ragazzi è colmato solo da pulsioni sessuali,
da attrazione per i corpi, per la carne. Justine è la dimostrazione di come un
essere vivente vuoto, può mostrarsi solo per ciò che è: una persona in preda
agli istinti più animali. Il cannibalismo di Justine, la sua pulsione per la
carne è il simbolo di una gioventù piatta, incapace di scuotersi, adagiata in
un mondo in cui il tempo non scorre mai.
Raw è un film
horror per il disgusto che mette in scena, per il suo essere disturbante in
alcune sequenze. Centro dell’orrore, in linea con i dettami del genere, è il
corpo umano, sfigurato, sventrato, fatto a brandelli. Un body horror, dunque, che mischia in un pastiche postmoderno elementi di Pasolini, del cannibal movie e della Chemical
generation. Un horror che però non
cerca di ottenere effetti gore per sconvolgere lo spettatore, ma piuttosto vuole
sviscerare la condizione di un’intera generazione. Nella sua correttezza
formale (e nella genialità di alcune sequenze simboliche) la regista realizza un
film da circuito arthouse, una gemma
destinata a brillare a lungo.