Michèle (Isabelle Huppert), donna
forte e in carriera, viene aggredita e stuprata in casa sua. Rinuncia però a
denunciare l’accaduto alla polizia e intraprende invece un’indagine personale
che la porta a rielaborare e riscoprire le proprie pulsioni in bilico fra
desiderio e violenza.
Paul Verhoeven a 78 anni torna a
miscelare quella sessualità e quella violenza che già si erano viste nei suoi
precedenti lavori, Basic Instinct in primis. Il personaggio interpretato
magistralmente da Isabelle Huppert ci appare subito come la vittima: stesa a
terra, violentata e con i vestiti strappati, Michèle è l’incarnazione della
violenza sul corpo femminile.
Succede però che Michèle è una
donna divorziata, dispotica sul lavoro; ha una giocosa relazione con il marito
della sua migliore amica, e nel frattempo flirta anche con il vicino di casa. Ha un
rapporto turbolento con il figlio che sta per avere un bambino e un pessimo
rapporto con la madre che si sta per risposare, e soprattutto è figlia di un
uomo che 40 anni prima ha ucciso 27 bambini in un atto di follia.
Michèle non può più essere vista
come la vittima: è un personaggio ambiguo, le cui ragioni e perversioni
sfuggono a una logica lineare. Michèle è una donna spinta dalla lussuria. Una
lussuria che la porta ad accettare uno stupro subito e soprattutto che la
spinge a mantenere un comportamento fatto di eccessi, nel lavoro e nel privato.
Elle dimostra di essere il nuovo
tentativo (riuscito) di Verhoeven di rappresentare l’inscindibilità tra violenza e sessualità, staccandosi dai
discorsi freudiani e abbracciando una sottile ironia che permette al film di
scardinare le convenzioni dei generi cinematografici (e sessuali) e sconvolgere
le aspettative del pubblico.