È il 2016 e sulla Terra sono
arrivati gli extraterrestri: dodici navicelle aliene sparse per il globo galleggiano
in cielo in attesa di contatto con il popolo terrestre. La linguista Louise
Banks (Amy Adams) e il fisico Ian Donnelly (Jeremy Renner) sono reclutati dal
colonnello Weber (Forest Whitaker) per cercare di trovare un linguaggio comune
con la nuova forma di vita, mentre nel mondo si dibatte sulle reali intenzioni
dei misteriosi invasori.
Con Arrival Denis Villeneuve,
canadese adottato ormai da un lustro dal cinema hollywoodiano, riesce a
proseguire quel piccolo filone di fantascienza adulta dagli intenti filosofici
a cui appartengono Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) e il più recente
Interstellar (2014) di Nolan.
La forza e il peso di Arrival sta
tutto sulle spalle di Amy Adams, attrice formidabile, linguista di successo dal
passato scosso per la scomparsa della figlia, incaricata dal governo americano
di stabilire un contatto linguistico con gli alieni. L’idea geniale del film è
proprio qui: Independence Day (1996) e
La guerra dei mondi (2005) sottointendevano un popolo extraterrestre violento e
conquistatore per dare spazio all’action e agli effetti speciali. Arrival no:
tema centrale del film è la comunicazione: un dialogo pacifico fra civiltà e
identità sconosciute. Un tema banalissimo, solitamente trascurato, ma di
spaventosa attualità.
Il film di Villeneuve ha il
pregio di esprimere nitidamente un timore per lo straniero, portando nella
fantascienza quella xenofobia latente che dilaga in tutto il mondo occidentale
nei nostri giorni. Arrival è un concentrato di tematiche comuni e scottanti
coniugate a un perfezionismo tecnico che nasconde quei piccoli passaggi a vuoto
e quei difetti dovuti al coraggio e alla sperimentazione che un genere come la
fantascienza pretende.